Sono Raffaella, amica di Federico, prima che collega, da lungo tempo, da quando eravamo entrambi giovani architetti, praticamente la stessa età, che iniziavano a lavorare in Facoltà, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90.
Con Federico abbiamo condiviso un percorso sempre parallelo – anche se in discipline diverse: stesso dipartimento, quello di Progettazione dell’Architettura, stessa scuola, anche quando siamo andati in Bovisa, alla Facoltà di Architettura Civile, e ancora stesso dipartimento, circa 10 anni fa, quando siamo tornati nella sede di Leonardo.
Ci appassionavano discipline diverse, la Storia lui, la Composizione io, ma maestri comuni ci hanno insegnato l’importanza, la necessità direi, del confronto, della condivisione, della integrazione.
Federico era uno storico, e per ricordarlo, per salutarlo, per dire le due o tre cose che so di lui non posso che andare un po’ indietro nel tempo, ripercorrendo qualcuna delle molte volte in cui le nostre traiettorie si sono incrociate in attività diverse, convegni, mostre, libri, discussioni, corsi, momenti allegri e anche momenti tristi, e nelle lunghe conversazioni al telefono.
All’inizio della sua carriera, che non è stata sempre facile e neppure lineare, Federico era un tecnico laureato al Politecnico.
Ha lavorato per diversi anni alla redazione della rivista del Dipartimento di Progettazione con diversi direttori: lui e Igor Maglica erano i ragazzi della rivista, che raccoglievano, impaginavano, tenevano i contatti, la costruivano.
Io l’ho conosciuto in quegli anni, mentre facevo il Dottorato, quando direttore del Dipartimento era Antonio Monestiroli, con il quale lavoravo a scuola.
Federico già allora non si risparmiava, aveva una grande energia, era instancabile, curioso, vorace, spaziava nei suoi interessi. Serio, preciso nel lavoro; allegro, propositivo, entusiasta nel farlo.
Era appassionato all’architettura ed era appassionato alla vita, due mondi inseparabili, perché, come ci insegnavano, si specchiano uno nell’altro.
E questa duplicità corrispondeva bene al carattere vitale, esuberante di Federico.
Gli insegnamenti della Scuola di Architettura di Milano, quella gloriosa e ricca del dopoguerra, fucina di idee e di cultura irripetibile, di personalità e di maestri, è stato un tema che ha appassionato entrambi, che, in modi diversi, abbiamo studiato a lungo e in certi momenti abbiamo condiviso.
Uno di questi fu negli anni ’90, quando Antonio Monestiroli – il “presidente” come più tardi lo chiamava Federico, in una sorta di omaggio rispettoso appena velato di scherzosa ironia – l’aveva ingaggiato per una lunga intervista a Ignazio Gardella, il grande, vecchio maestro milanese.
Federico andava con Antonio nel bellissimo studio di via Marchiondi tutti i martedì mattina e registravano le conversazioni; poi sbobinavamo, correggevamo, rileggevamo, affinavamo fino a che, con l’aiuto di Edoarda, la nipote di Ignazio Gardella, l’intervista è diventata un bel libro.
E poi sono nati molti altri libri, e mostre, e convegni su molti autori della cultura architettonica milanese; fra tutti quelli su Franco Albini, con una mostra che Federico ha portato in molte scuole italiane, facendosi accompagnare di volta in volta da colleghi diversi del Dipartimento.
Alla fine degli anni ’90, invece, ci eravamo inventati una collana di piccoli libri che dirigevamo io e lui: si chiamava EX-CATHEDRA, voleva raccoglieva lezioni dei nostri maestri, presenti o passati.
Ora non voglio certo fare bilanci dei suoi studi e delle sue attività che spaziavano in mondi diversi – la scuola e l’editoria sempre al centro –, e luoghi diversi, anche lontani, l’America fra le sue prime passioni. Credo che avremo tempo e modo di rileggere il suo lavoro, con i suoi allievi, con i suoi colleghi e con i suoi amici.
In questo breve ricordo vorrei mettere in luce una qualità che ho sempre riconosciuto in Federico, che credo abbia sempre mosso e sostenuto il suo lavoro, insieme alla sua vitalità infaticabile.
Federico era ambizioso, certo, nel senso che aveva degli obiettivi precisi, e li perseguiva con tenacia, con trasporto e con grande generosità, con un carattere talvolta irruento.
E in questo non lo muovevano interessi personali, ma sempre una grande idealità: faceva con trasporto ciò in cui credeva, che riteneva importante, utile, giusto, non per sé, ma per l’architettura, per la scuola, per gli studenti e i giovani ricercatori, per la conoscenza.
Era combattivo, ed era disposto a rischiare, a sbagliare, a litigare, cosa che credo abbia fatto più volte con più persone, pur di perseguire questi obiettivi.
E lo faceva con correttezza, con integrità morale ed etica, con il piacere di conquistare le cose, di arrivarci per convinzione, coinvolgendo le persone, discutendo, litigando anche: erano una idealità e un’etica laica che, forse, una passata militanza politica, insieme agli insegnamenti di alcuni maestri, gli avevano lasciato in eredità.
Non posso non ricordare anche una vena sentimentale, che Federico stemperava quasi sempre con una battuta o una risata, svelata in un momento molto triste che abbiamo vissuto insieme, ma che ora non voglio ricordare.
Nel 2005, per l’inaugurazione dell’anno accademico, avevamo organizzato una mostra, si chiamava POLIMI.WORLD, laureati del Politecnico nel mondo.
E l’anno dopo ancora, nel 2006-07, la Scuola di Architettura Civile decise di organizzare un nuovo Laboratorio dal titolo complicato – Laboratorio di storia, critica e rappresentazione del progetto di architettura.
Un esperimento voluto dai nostri professori da mettere a punto, fra storia e progetto, per il quale servivano persone giovani, disposte al confronto, a mettersi in gioco, a sperimentare. Federico, io, Marco Introini e Titti Loi ci proviamo subito, e poi il Laboratorio prosegue negli anni successivi, alternando le persone.
Ecco, credo che questa esperienza sia stata significativa per il suo lavoro al polo di Mantova, a cui Federico teneva moltissimo, e che negli ultimi anni ha catalizzato quasi tutti i suoi sforzi, per il quale andava alla ricerca di giovani disposti a investire nel lavoro con il suo stesso trasporto e la sua stessa passione, nel quale ha riversato tutte le conoscenze e le idee sulle quali si è formato.
Credo che abbia inteso costruire questa scuola cercando di mettere in atto proprio questa idea, il legame irrinunciabile, per l’architettura come per la nostra vita, fra storia e progetto, con la coscienza del valore irrinunciabile della storia, che ci plasma, che definisce la nostra identità, ma anche con la consapevolezza della sua inefficacia, della sua stessa fine, se a sua volta non innerva nuova vita e nuovi progetti, se non ha la capacità di trasmettersi, rinnovata, al futuro.
È questa convinzione che abbiamo sempre condiviso incrociando le nostre strade, che ci ha visti quasi sempre alleati nella scuola, intorno a cui abbiamo sempre continuato a confrontare scelte e modi di lavorare.
Fino all’ultima, appena intrapresa, la partecipazione a un dottorato nazionale che vorrebbe tenere insieme la storia, l’archeologia, il progetto di architettura.
Ma voglio provare a concludere come immagino avrebbe fatto lui, con una nota più leggera, tentando di emulare quella sua capacità ineguagliabile di risolvere in scherzo, in gioco, in una battuta allegra, ironica o auto-ironia, molte conversazioni, anche, e forse soprattutto, le più difficili.
Ricordandolo con un’amica, ci siamo sorprese del giorno in cui ci ha lasciato, il 16 settembre, un giorno da segnare sul calendario per un appassionato di calcio come lui.
Mi piace pensare che in quel giorno anche la sua squadra del cuore abbia voluto rendergli omaggio con una vittoria strepitosa cui sicuramente Federico avrebbe brindato, felice, con trasporto e con il suo solito entusiasmo.
Ciao Federico, mi mancherai.
Milano, 23 settembre 2023