Articolo di riflessione sulla mostra L’Appia è Moderna
Presso il Casale di Santa Maria Nova accanto alla Villa dei Quintili, nel parco Archeologico dell’Appia Antica, si è da poco conclusa la mostra L’Appia è Moderna, curata da Claudia Conforti, Roberto Dulio, Simone Quilici, Ilaria Sgarbozza. L’esposizione, promossa dal Parco Archeologico Appia Antica e dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura con l’organizzazione di Electa, è una finestra aperta sul Novecento Romano, sul mondo dell’architettura, dell’urbanistica, dell’arte, del cinema, nel cuore dell’Appia. Il suggestivo progetto espositivo è realizzato dallo studio Pioevenefabi.
Claudia Conforti, in occasione dell’incontro “L’Appia è moderna. Quali prospettive?”, tenutosi il 19 ottobre nella sede del Casale Santa Maria Nova, afferma che “la mostra è nata da una iniziativa di Simone Quilici”, ed è “il risultato della collaborazione di Roberto Dulio (…) perlustratore instancabile di archivi collezioni e cantine, che è riuscito a trovare importanti documenti che legano l’Appia alla cultura degli anni ’30 e ’40”, e di Ilaria Sgarbozza che, “come storica dell’arte oltre che funzionaria appassionata dell’Appia”, ha coadiuvato la ricerca ed “ha preso le redini della rappresentazione iconografica”.
È una piccola e preziosa mostra, costruita su sei sezioni convergenti. Raccoglie piani urbani, opere d’arte, progetti, ricerche, documenti, articoli, foto, video, materiali eterogenei, apparentemente contrapposti, o contraddittori, tutti contenuti in un caleidoscopio unico che restituisce la complessità del palinsesto Appia tra Novecento e modernità. I curatori tracciano un percorso non lineare, costellato da narrazioni distinte ma di identico valore, senza privilegiare una sezione a discapito di un’altra. Antico e rovinismo romantico, immaginario culturale e immaginario collettivo, archeologia e ricerca architettonica, mimesi vernacolare e tendenze ricostruttive, tutela e progettualità, cancellazione e riscrittura, storicismo e riuso dei modelli: i curatori propongono una nuova lettura dei paradigmi dell’Appia attraverso l’esperienza del moderno. Investigano le sottili relazioni tra il possibile e il reale, ricordandoci che, sempre, il possibile precede il reale: alcuni piani e progetti esposti furono realizzati, altri interrotti, ma comunque tutti “realizzabili”, nel rispetto delle regole e prescrizioni urbanistiche del tempo.
Esplicito è l’ancoraggio all’esperienza del Novecento, dal pensiero critico di Margherita Sarfatti a Marcello Piacentini, da Busiri Vici a Raffaele De Vico ed Enrico del Debbio, e poi fino agli esperimenti degli architetti che operarono tra le due guerre fino alla storia della Galleria Appia Antica di Emilio Villa. L’antico, traguardato attraverso l’esperienza del moderno, non rimanda alla sua essenza piuttosto alle varie forme di episteme che si succedono nel cuore dell’Appia, alle rotture epistemologiche compiute nel Novecento dalle avanguardie, o alle connessioni dirette o laterali, attraverso le quali si sono ricostruite narrazioni alternative allo storicismo trionfante.
La mostra si presenta in questo modo come un “work in progress”, un racconto volto a restituire i diversi modi d’essere dell’Appia Antica interrogata nel suo divenire storico, attraverso le trasformazioni avvenute, sin dalla sua “invenzione”, quando nel 1883 Roma diventa capitale d’Italia e ha bisogno di una passeggiata archeologica perspicua, o quando il Piano Regolatore del 1909 di Edmondo Sanjust e del sindaco Ernesto Nathan concorre al processo di ri-significazione e recupero della strada, fino ai progetti realizzati dopo la seconda guerra mondiale e negli anni Cinquanta, e alle continue connessioni con le arti.
Elemento focale di apertura della mostra è una testa di bucranio appartenuta a Duilio Cambellotti, significativamente evocativa, che paradossalmente pare contemplare e custodire, perpetuare nel presente la vicenda della Regina Viarum come un déjà vu extratemporale. L’oggetto esposto assume una triplice valenza: in primo luogo, è un cimelio che ha perso il suo ruolo originario, divenuto puro elemento di passaggio, da un lato si collega all’idea della perdita, dall’altro catalizza l’attenzione verso nuovi scenari. Il bucranio assurge ad agente di memoria e al contempo ad agente catalizzatore di narrazioni potenziali. In nome di ciò che è assente, invita ad estendere lo sguardo verso ciò che ancora non è.
Sala di apertura della mostra, a destra testa di bucranio appartenuta a Duilio Cambellotti (foto dell’autrice).
E proprio su questa funzione diegetica, sulla vicenda dell’antico mito, sull’idea romantica dell’Appia Antica, tra le pieghe delle rovine, tra ruderi e lacerti di architetture perdute, esistenti o solo sognate, tra progetti di architetti e urbanisti, documenti, trafiletti, pagine di rotocalchi, fumetti, progetti, scritti di archeologi, scrittori, giornalisti, opere di artisti, o tutti coloro che hanno costruito visioni su questo territorio in un lontano o recente passato, si riflette la vicenda moderna della via Appia.
Il visitatore è accolto da una sezione dedicata a progetti, piani urbanistici e opere d’arte, che evocano il mito della Romanità. Dal Piano Regolatore del 1909 di Edmondo Sanjust e del sindaco Ernesto Nathan fino alla bonifica, la memoria delle paludi e delle capanne dei butteri e dei pastori, che ispirarono Duilio Cambellotti, e Pietro De Laurentiis, dall’ideologia bucolica e antichizzante delle ville di Marcello Piacentini, Busiri Vici, Raffaele De Vico ed Enrico Del Debbio, passando per Luigi Moretti, Vincenzo Monaco, Amedeo Luccichenti, Lucio Passarelli, Carlo Aymonino, sono tanti i progettisti che nel secondo dopoguerra si sono schierati contro gli stereotipi, annullandoli, sfidando l’immaginario romantico sull’Appia per superare quei modelli e proporre una nuova lettura dei paradigmi dell’antico attraverso l’esperienza del moderno.
Scultura in bronzo di Pietro De Laurentiis (foto dell’autrice).
“Impara, / oblia, / inventa”. È il testo che campeggia nella seconda stanza. Sono le parole di Margherita Sarfatti che si fanno allegoria di un programma critico, di estraneità al culto della rovina, del bisogno di superare l’equazione della classicità. Ribelle, anticonformista, prima donna ad affermarsi come critica d’arte in Europa. A ricordare che i valori dell’arte antica si traducevano in “moderna classicità”, in mostra c’è l’articolo Via Appia. Quelli che scrissero sul marmo, pubblicato su “La Stampa” nel 1937, che lei ha dedicato a una esposizione curata a Parigi da Eugenio D’Ors due anni prima. Di colui che fu Eugenio D’Ors e a cui si attribuisce il merito di aver orientato la comprensione storica dell’arte verso nuovi interrogativi, è esposta la copia appartenuta alla Sarfatti del prezioso portfolio, intitolato Via Appia. Quelques essais d’épigraphie lapidaire exposés au premier salon de l’art mural (1935).
Il quaderno raccoglie le iscrizioni di Gabriele D’Annunzio, Jacques de Laprade, Eugène Marsan, Frédéric Mistral, Paul Jean Toulet, Paul Valéry e della Sarfatti stessa. È un interessante documento per comprendere, rintracciare l’atlante critico di Margherita Sarfatti. Artisti poeti e scrittori contemporanei sono chiamati ad inventare variazioni sull’attualità dell’epigrafia antica: giustappongono fonti, modelli di linguaggi. La raccolta di epigrafi, steli e iscrizioni su pietra, contiene una molteplicità di opposizioni. La concatenazione delle iscrizioni è scandita da una grafica moderna.
Il portfolio è archetipo di un astrattismo artefice di pure indagini formali. Un petit tour al contrario, che lega significativamente la cultura del primo Novecento all’antichità dell’Appia. O viceversa.
Accanto alla copia di portfolio è esposto il supplemento “Italiani” della rivista “Domus” che Leonardo Sinisgalli e Gio Ponti nel 1937 dedicano alle effigi di Italiani Illustri, dall’antichità al fascismo, in un volume speciale.
Non è certo una casualità, ma coincidenza vuole che le epigrafi ritornino con un progetto grafico d’avanguardia: in copertina spiccano una rilegatura su sfondo lapideo, il titolo Italiani sul recto e l’epigrafe mussoliniana scolpita sull’attico del Palazzo della Civiltà Italiana sul verso.
Consente di inquadrare la ricerca compiuta da Michele Busiri Vici, Raffaele de Vico, Marcello Piacentini, rivolta inizialmente a un recupero di stilemi propri di una tradizione rustica e vernacolare nel caso delle prime ville novecentesche, orientata negli anni seguenti verso reinterpretazioni di più idealizzata classicità nel caso dei progetti di Luigi Moretti, Enrico del Debbio. Significativi in tal senso sono la soluzione monumentale di villa Attolico in via di Porta Latina di Michele Busiri Vici (1933), il progetto di Luigi Moretti di una garçonnière per Ettore Muti all’interno di porta San Sebastiano (1940-42), o il progetto di una colonia per artisti e architetti di Marcello Piacentini e Attilio Spaccarelli nell’area di Tor Carbone (1943).
Luigi Moretti, Sistemazione e arredo della garçonnière per Ettore Muti all’interno di porta San Sebastiano, 1940-42. Fotografia dell’interno, Archivio Centrale dello Stato, Roma.
Sono poi illustrate le sperimentazioni che segnano il cambio di rotta dalla cultura ufficiale dopo la Seconda guerra mondiale, con i progetti di Luigi Moretti, Vincenzo Monaco, Amedeo Luccichenti e Lucio Bassani. Spiccano i progetti di ville di Monaco e Luccichenti per Giovanni Gronchi a via di Porta San Sebastiano (1957-60) e quello a Tor Carbone (1958). E ancora vediamo la villa per Jacopo Marcello (1953) o la struttura formulata per Domenico Modugno (1959-60), nelle quali sono più facilmente percepibili gli elementi del programma morettiano verso forme più fluide e informali. Accanto ai disegni si vede la bellissima opera dello scultore Pietro De Laurentiis che collaborò tanti anni con Luigi Moretti.
Luigi Moretti, Progetto di villa sull’Appia Antica per Jacopo Marcello, Roma 1953. Archivio Centrale dello Stato, Roma.
L’altra fase fondamentale è il percorso verso un modernismo che rielabora gli esperimenti dell’architettura italiana tra le due guerre, intrapreso negli anni seguenti da Lucio Passarelli, e poi da Carlo Aymonino. Si vede il progetto di ville in linea a Tor Carbone del 1963-64 realizzato da Carlo Aymonino, il fratello Maurizio, Alessandro e Baldo de Rossi, riuniti nello studio AYDE. C’è l’articolo della rivista “Architettura cronache e storia” (1971) dedicato al progetto, in cui Aymonino scrive che la scelta di una copertura con coppi a falde, imposta dal Comune e della Sovrintendenza, vuole rievocare le soluzioni della tradizione rurale.
STUDIO AYDE (Carlo Aymonino, Maurizio Aymonino, Alessandro de Rossi, Baldo de Rossi), Ville in linea a Tor Carbone, Roma 1963-64: Viste e piante; Gli edifici sulle pagine de “L’architettura cronache e storia”, n. 186, aprile 1971. IUAV, Venezia.
A questi s’aggiunge una infrastruttura simbolo delle dinamiche urbane: il cavalcavia di Sergio Musmeci vicino a porta San Sebastiano (1980-99). In una teca è esposto il modello ligneo. Il progetto, che aspira a modificare una attitudine “ideologica”, trasforma un’Appia forgiata da una vocazione storicamente “antiurbana” in uno spazio strettamente connesso alla città.
Sergio Musmeci con Zenaide Zanini, Cavalcavia sulla via Appia Antica, Roma 1980-99. Prospetto, Fondazione MAXXI, Roma.
Il percorso prosegue con una sezione dedicata alle arti figurative, convergente con la sala dedicata agli architetti dell’Appia. Attraverso l’una sembra di riuscire a cogliere in modi più perspicui la rilevanza dell’altra e viceversa. A emergere è un capolavoro dell’architettura italiana del Novecento, realizzato nell’immediato dopoguerra ai margini dell’antica via consolare, il Sacrario ideato da Mario Fiorentino e Giuseppe Perugini, a memoria dei martiri trucidati dai nazisti nelle Fosse Ardeatine (1944-51). In esposizione si vedono il modello del Sacrario di Perugini, il disegno realizzato per il cancello di Mirko Basaldella (1946), e lo studio bronzeo della scultura Le tre età di Francesco Coccia (1950 ca.).
Modello del Sacrario di Perugini e bozzetto bronzeo per la scultura Le tre età di Francesco Coccia, 1950 ca. (foto dell’autrice).
In esposizione ci sono opere che compongono l’immaginario collettivo contemporaneo, e si relazionano alla precedente tradizione figurativa, a cui artisti / architetti / fotografi attinsero per cesellare il racconto moderno dell’Appia. Molti capolavori, da Duilio Cambellotti a Giuseppe Costantini, da Vittorio Grassi a Enrico Coleman, da Carlo Socrate e Mimì Quilici a Mariano Fortuny, da Francesco Trombadori a Giulio Aristide Sartorio, che restituiscono due dimensioni, da una parte, una visione analitica e puntuale sul paesaggio, dall’altra, romantica, più incline alla sintesi e all’astrazione.
Ci sono i manifesti di Duilio Cambellotti (1911) e Tarquinio Sini (1925) che a grandi lettere stampate su sfondi con i monumenti dell’Appia urlano “Feste commemorative della proclamazione del Regno d’Italia”, oppure “Circuito di Roma sotto l’altro patronato di S.M. il Re”, e ancora “Raduno Automobilistico Internazionale”. Promuovono qualcosa che va oltre, che si pone oltre l’arte, una lotta che tenta di sconfiggere la resistenza del passato.
Significativo è pure un manifesto realizzato da Duilio Cambellotti in occasione dell’Esposizione di Roma (1911) per la mostra dell’Agro Romano, perché testimonia l’impegno dell’artista per rendere nota la drammatica situazione degli abitanti nella campagna laziale e per raccogliere i fondi per le scuole rurali. Cambellotti si dedica alla progettazione e costruzione di scuole per i figli dei contadini e pastori affinché avessero la possibilità di affrancarsi per una vita migliore.
È altresì emblematico l’esempio di Giulio Aristide Sartorio che tra il 1919 e 1932 vive in via di Porta San Sebastiano nel primo tratto dell’Appia Antica.
Interessante testimonianza di una vivacità culturale che era presente lungo l’Appia è la vicenda della Galleria Appia Antica di Emilio Villa che ha visto debuttare Schifano e Manzoni, o ha ospitato artisti come Burri.
È poi raccontata la storia di una Appia Pop, tascabile, maneggevole, addomesticata, massificata, adatta a tutti, tra normalizzazione e conformismo.
L’Appia delle ville dei protagonisti del cinema e dello spettacolo, o dei politici, è esibita nei film, dissacrata nelle réclame pubblicitarie, o evocata nei fumetti. L’Appia, non più antica, diventa periferia del proprio passato.
Tra le due guerre, e negli anni ’50, una moda s’aggirò a Roma. Sorsero lungo la via Appia numerose ville. Per rendere il quadro più suggestivo, i grandi attori, i produttori cinematografici, chiamarono gli architetti più famosi, Marcello Piacentini, i Busiri Vici, Raffaele De Vico, Enrico del Debbio. E lentamente, l’Appia diventa rifugio di élite, dove poter avere una vita riservata, nascosta da occhi indiscreti. Gli scheletri dei resti antichi vengono inglobati nelle nuove costruzioni.
La villa di Dino di Laurentiis e Silvana Mangano, progettata da Michele Busiri Vici, è la scenografia perfetta per le pellicole Latin Lover di Francesco Indovina del film I tre volti prodotto da De Laurentiis con Soraya e Alberto Sordi. C’erano una piccola cascata e una piscina dalla forma sinuosa incastonata alla base di un costone roccioso. Una architettura quasi mélièsiana, fatta di sfondi e rocce artificiali che alterano le morfologie preesistenti del contesto. Il vocabolario architettonico utilizzato ripropone un linguaggio eclettico, ambiguamente rassicurante, che mescola gli stilemi della tradizione bucolica a quelli del Rinascimento e del Neoclassicismo.
Al Salone dell’Automobile di Ginevra del 1959 è presentata la serie Lancia Appia berlina. La regina viarum, utilizzata come veicolo pubblicitario in una doppia pagina di una réclame di un giornale, è descritta come un’APPIA più elegante / più veloce / più confortevole, e specialmente più moderna.
Tra i documenti esposti al Casale di Santa Maria Nova, v’è anche il fumetto Topolino e la Via della Storia, ideato nel 2023 per la candidatura Unesco della regina viarum, in cui l’eroe disneyano, in una fantasiosa trasposizione della Satira oraziana (I, 5) proposta dall’archeologo Giuseppe Ceraudo allo sceneggiatore Francesco Artibani e al disegnatore Alessandro Perina, ricorre alla macchina del tempo per ripercorrere con l’amico Pippo le orme del poeta lungo l’Appia.
Come ultimo tassello del percorso espositivo, ci sono le magnifiche foto di Francesco Jodice che mescolano sogno e realtà per mostrare un’altra Appia. A queste si aggiungono le sfuggenti incisioni e acqueforti di Mariano Fortuny, traslate da fotogrammi inediti che l’artista ritagliò con il suo photoshop mentale da una sua pellicola cinematografica, che sembrano abbattere il confine tra arte e vita.
Francesco Jodice, Via Appia, 2024, Villa dei Quintili.
E dunque in questa commistione di mito, letteratura e cinema, cultura alta e cultura popolare, riutilizzo ironico delle fonti classiche, evocazione epica del viaggio nel passato, la narrazione nelle ultime stanze, infrange i confini porosi tra finzione e realtà, introduce il visitatore in una geografia dell’altrove, una realtà diversa, meno reale, ma possibile. Il percorso espositivo tende a scardinare il duale reale-fantastico, per aprire prospettive di diversi ordini di realtà, per spalancare nuovi orizzonti. Nelle sei sezioni espositive è svelata in accezioni diverse, ma tutte equivalenti, la relazione tra norma e riscrittura, cancellazione e ri-significazione, evidenziando l’esercizio di liberazione innovativa e pratica trasformativa attuati nel passato nel cuore dell’Appia dagli artisti e architetti e urbanisti messi in mostra.
Il visitatore è condotto in una realtà in fieri, è invitato a partecipare, cooperare ad una rappresentazione dinamica in un sistema di relazioni, nella costruzione della narrazione dell’Appia e dei suoi possibili scenari. Una visione che diviene una necessità epistemologica. L’Appia diventa un testo da decodificare. Una sfida quella messa in mostra dai curatori. L’Appia è moderna. Ma forse il fatto non sussiste. D’altronde è in primis Appia, e poi è anche un’Appia “Antica / Moderna / Contemporanea”, che riparte da capo, e avanti così. E convinti che non c’è memoria, né ripetizione possibile degli eventi / documenti / saperi / progetti esposti, l’invenzione dell’Appia, può forse ancora evolvere in una direzione diversa, da quella del passato ma specialmente da quella della modernità, oltre la modernizzazione, fino all’aspirazione di un nuovo “canone”, di un orizzonte solido, per trasformare i margini urbani del quadrante urbano limitrofo al parco archeologico in nuova geografia, spazio comune per il futuro, luogo di innovazione, scenario relazionale, che possa includere paesaggio, architettura, la natura, i saperi, tutti.
L’iniziativa ha il pregio di aprire un dibattito sul destino dell’Appia, intorno al possibile ruolo costruttivo nella città. Una riflessione su temi fondanti come il rispetto del genius loci, la natura relazionale dei beni culturali e del paesaggio, l’assenza di una visione di futuro da parte della politica, la visione settoriale delle istituzioni, il coinvolgimento delle comunità. L’urgenza di esercitare il rinnovamento interpretativo della diversità dei fattori urbani e sociali, estendendo la sperimentazione non solo nel campo dell’archeologia, ma anche nell’ambito più complesso e instabile dell’epoca contemporanea, per esplorare nuovi “sentieri di soluzioni infrastrutturali” nei territori interrotti delle metropoli, immaginare diverse forme di urbanizzazione e progetti possibili di paesaggi consolidati sulle necessità delle parti interessate che possano superare la distanza tra patrimonio culturale e società locali rispetto ai beni naturali.
Lascia il posto a riflessioni più profonde. Definire strategie migliori tra le Amministrazioni per gestire bene il territorio. Abbandonare un atteggiamento dietristico, rivolto solo al passato. Raggiungere una chiarezza di impostazione politica e operativa. Coltivare una istanza concreta di progetto nella città esistente per la società esistente. Dibattere di cultura ecosistemica, intesa quale possibile metodologia per incoraggiare un dialogo collaborativo tra diversi punti di vista, comprendere gli interessi delle comunità, superare le visioni settoriali, individuare le forze sociali / culturali / economiche e politiche, e capire come esigenze diverse possano coesistere per costruire un progetto plurale di paesaggio. Delineare un nuovo quadro narrativo, all’interno di un più ampio progetto di riorganizzazione paesaggistica del territorio, per pretendere che l’Appia sia ancora parte vivente della città contemporanea, il luogo per stabilire e procedere, per interrogarsi su nuove prospettive, intervenire sulle contraddizioni oggettive della città, e mantenere un legame profondo con il piano storico, con una dimensione umanistica nel contemporaneo.
Percorrendo le sale, appare possibile la ricostruzione di una narrazione alternativa, fra costruzione e programmazione, che si inserisce nel paesaggio storico verso un paesaggio più moderno, che sia frutto di nuove previsioni urbanistiche, in una direzione ancora diversa da quella che il visitatore / cittadino conosce, nella metropoli contemporanea, al contrario delle aspettative logiche della modernità, per pensare a spazi futuri guardando alla storia. Perché per continuare a inventare l’Appia, il futuro, si sa, va ricordato. E per ricordare il futuro, per l’Eingedenken dell’Appia, è necessario continuare a studiare il carattere di questo luogo, rimotivare continuamente le finalità della conoscenza critica del suo passato, per riuscire ad afferrare la complessità del presente, e far emergere possibilità nuove per il futuro del parco archeologico, nella città contemporanea.
Via Appia Antica, fotogrammi da pellicola cinematografica di Mariano Fortuny y Madrazo, 1930 ca. Museo Fortuny ©Archivio Fotografico – Fondazione Musei Civici di Venezia.
Il catalogo della mostra è suddiviso in 16 capitoli, dai titoli diversi che non seguono l’itinerario della mostra ma indagano il mito di un’Appia moderna tra nuove acquisizioni scientifiche, architettura e arte. Introducono ai contenuti, due brevi presentazioni scritte da Massimo Osanna, Direttore generale Musei, e Angelo Piero Cappello, Direttore generale Creatività contemporanea. Oltre ai saggi dei curatori, il volume comprende scritti di Antonino Nastasi, Marzia Marandola, Cristina Maria Da Roit, Emiliano Morreale, Maria Vittoria Marini Clarelli, Irene Rossi, Michele Reginaldi, Luigi Oliva, Clara Spallino, Raffaela Rocchetta, Stefano Antonetti.
Un interessante contributo di Simone Quilici apre il catalogo. Esamina la via Appia nell’urbanistica di Roma Capitale. Affronta l’evoluzione del significato e valore di “bene culturale” e della sua tutela, indagando l’importante rapporto tra trasformazione e conservazione dei beni storici. Restituisce un senso complessivo delle proposte degli urbanisti che hanno contribuito al processo di costruzione delle politiche e delle regole, entro la storia della città di Roma. La via Appia è intesa quale organismo, palinsesto di alternativa urbana ancora oggi in definizione.
L’excursus di Quilici muove dalla prima metà dell’Ottocento, quando Luigi Canina ri-significa il territorio dell’Appia con l’idea di realizzare un parco-museo. Tocca da un lato le questioni legate alla gestione e manutenzione, o fruizione pubblica, che misero in difficoltà lo Stato italiano nei primi anni di Roma Capitale, e assumono particolare rilevanza se inseriti nel processo di istituzionalizzazione nella Roma della restaurazione papalina, specialmente nell’evoluzione del concetto di “bene culturale” e di tutela, e conservazione del patrimonio. Affronta dall’altro lato le questioni operative inerenti al restauro e al ripristino, al ruolo dello Stato, e come la burocratizzazione avrebbe inciso sulla politica culturale nazionale. Durante gli anni del fascismo è il consolidarsi di una gestione centralistica della proprietà pubblica, e la Regina viarum è il simbolo perfetto per l’esaltazione della romanità perseguita dal Regime: con la Variante generale di piano del 1925-26 e il Piano regolatore del 1931, il tratto romano della strada è saldato con la Passeggiata Archeologica e con l’area dei Fori, viene delineata l’apertura paesistica della direttrice verso i Castelli e la Campagna Romana.
Ciò che però è evidenziato da Quilici è che l’estensione dell’area di “rispetto” dell’Appia inaugura una fase legata al recupero del suo territorio. Ricorda i progetti e i piani più significativi che hanno investito la città e il territorio dell’Appia. Il Programma dei parchi (1927) e il progetto di sistemazione paesaggistica del Parco degli Scipioni di Raffaele De Vico per il secondo tratto della passeggiata archeologica tra via di Porta San Sebastiano e via di Porta Latina (1929). Il Piano Regolatore del 1931 che prevede un sistema di aree verdi intorno alla città in cui la direttrice principale dell’Appia diventa parte integrante del sistema urbano e viene inserita in una vasta “zona di rispetto”, simile a un grande parco.
Evidenzia di una parte rilevante di attività urbanistica di specifici e rilevanti autori che si succedono nei primi decenni del Novecento, per delinearne i principali risultati attinenti alla tutela del paesaggio. Parla della proposta di Marcello Piacentini per un anello dei parchi (1916) ripresa dalla città di Chicago, e poi del Piano particolareggiato a valenza paesistica redatto da Plinio Marconi per la Caffarella (1937) che anticipa le leggi Bottai che introdurranno lo strumento del piano paesistico, e ancora del progetto di una nuova arteria per eliminare il traffico dall’Appia voluto dal Governatorato di Roma e dal Ministero della E.N. (Educazione Nazionale), per arrivare fino al 1940 con l’inserimento della strada Appia Nuovissima nel progetto di sistemazione di Tor Carbone, e al 1941 con la Variante generale al Piano regolatore di Roma, fino all’espansione edilizia del secondo dopoguerra. Il piano, destinato a rimanere sulla carta, contribuisce tuttavia al processo di nascita delle prime battaglie di salvaguardia dell’Appia Antica che vedranno protagonisti figure come Antonio Cederna o Raffaele De Vico.
A partire dagli anni Cinquanta, la storia è nota. Ciò che non fu compiuto dai barbari, né dall’ingiuria dei secoli per scempiare la regina viarum, fu fatto dalla crescita incontrollata della città, dalla speculazione edilizia e dall’abusivismo, che resero la zona dell’Appia uno spazio intercluso tra aree urbane in forte espansione. Fu in questo momento che si mobilitarono ambientalisti, intellettuali, combattenti della cultura, e fu invocato il piano di tutela dell’Appia Antica. Con l’apposizione del vincolo paesaggistico su una ampia fascia di rispetto, si arrivò nel 1954 alla prima versione del piano paesistico del tratto tra Roma e Bovillae, poi sostituito dalla variante del 1960.
Quilici ricostruisce il susseguirsi delle previsioni e delle trasformazioni, il percorso di definizione del quadro normativo e pianificatorio prima dell’istituzione del Parco. Tocca i piani di Luigi Moretti che prevedevano l’edificazione sulle aree limitrofe, il progetto per il Parco Archeologico dell’Appia Antica (1957) e il piano particolareggiato della Valle della Caffarella (1959), e poi il Piano Regolatore di Roma del 1962-65, fino a evidenziare il ruolo di Italia Nostra per l’estensione del vincolo di parco pubblico su tutto l’ambito dell’Appia. Restituisce un senso complessivo delle proposte che hanno contribuito al processo di pianificazione e costruzione entro la storia della città di Roma, nello specifico contesto della via Appia. Su questo terreno, indaga l’iter di definizione delle politiche e delle regole urbane, gli errori commessi dai maestri nei primi decenni del dopoguerra, schiacciati tra speculazione selvaggia e convinzioni dettate da un riduzionismo interpretativo che attraversava le politiche e gli urbanisti, o il momento di passaggio quando il prodotto dell’urbanistica vuole rappresentare i valori e le istanze più avanzate della società.
Giuseppe Costantini, Veduta del mausoleo di Cecilia Metella con contadini e armenti, 1877. Collezione privata, Roma.
Roberto Dulio si occupa dei progetti per le ville sull’Appia. Delinea un intreccio che offre continui agganci con le vicende dell’architettura italiana, non meno che preziose indicazioni di lettura sulla critica e le arti, per comprenderne la complessità nel panorama Appia. Ricostruisce un percorso organico, tutt’altro che lineare, dai primi progetti che riprendono gli stilemi rusticheggianti delle pratiche tradizionali, a quelli più propriamente moderni del dopoguerra che si distaccano dalle retoriche del passato, come le strutture ideali di Luigi Moretti. Estende la sua indagine sul rapporto tra pianificazione e contesto, parla delle sistemazioni urbane dei primi decenni del Novecento di Enrico del Debbio per l’area tra via Cristoforo Colombo e l’Appia (1935-37), delle singole opere, tra le altre, la colonia per artisti di Piacentini ideata per Tor Carbone (1943), l’invenzione di Mario Fiorentino e Giuseppe Perugini per il Sacrario dei martiri delle Fosse Ardeatine (1944), il progetto magistrale di Sergio Musmeci per il cavalcavia di attraversamento dell’Appia Antica di fronte a San Sebastiano (1980-99) che restituisce la strada alla vitalità delle dinamiche urbane. Dulio parla di due preziosi documenti inediti che legano l’Appia alla cultura degli anni ’30 e ’40, e riguardano il portfolio di una mostra concepita tra Madrid e Buenos Aires, realizzata a Parigi, organizzata da Eugenio de L’Ors, che prende le mosse dalla epigrafia sulla lapide di Cecilia Metella, che ricorda la memoria del personaggio per cui il mausoleo venne eretto. Il primo è la copia del portfolio che appartenne a Margherita Sarfatti, l’altro riguarda una lettera in cui la Sarfatti chiama artisti e intellettuali a inventare delle variazioni su epigrafi antiche.
Interessante è lo scritto di Antonino Nastasi che riporta il lettore alla attualità delle scritture raccolte nel portfolio esposto.
Marzia Marandola approfondisce il progetto di Sergio Musmeci per il ponte sull’Appia che rimette in campo il tema complesso del rapporto con la contemporaneità. L’infrastruttura ideata dall’ingegnere in qualche modo pare concretizzare le forme dei progetti Morattiani, non lascia spazio all’idea di ambientamento banale o di ripresa analogica di forme o elementi che arrivano dal passato.
Ilaria Sgarbozza propone una analisi sulla dialettica tra verismo, simbolismo e astrazione nelle arti figurative nel Novecento nel contesto Appia. Approfondisce il rapporto tra l’immaginario dell’Appia e gli artisti.
Attraverso questioni diverse, quasi opposte, Claudia Conforti disegna con le sue parole i contorni di un’epoca, nello scenario dell’Appia, riuscendo a farla parlare con il nostro presente e le sue prospettive. Mescola millenni di storia, reliquie, arte, architettura, fumetti, cinema e avanguardie, inseguendo l’incessante processo di cancellazione, riscrittura o ricomposizione, messo in atto nel palinsesto Appia, senza mai perdere di vista il problema del rapporto con il contesto e la tradizione.
Cristina Maria Da Roit restituisce uno sguardo su Mariano Fortuny in termini più specificamente legati all’amore per la storia, le bellezze artistiche, paesaggistiche e architettoniche della città di Roma che contaminarono la sua arte. Inventore poliedrico, sperimentatore formidabile, sapeva trasformarsi alla bisogna in alchimista, imprenditore, fotografo, artigiano, designer, incisore, grafico. Le sue opere sono un coacervo di visioni e ricordi, citazioni di viaggi compiuti, paesaggi amati, arbusti, resti di edifici. Dedali visivi che testimoniano l’interesse per l’antica civiltà romana.
Accanto ai contributi di Emilio Morreale e Maria Vittoria Clarelli, sul rapporto tra Appia, cinema, revival paleocristiano e turismo, il catalogo registra una importante indagine di Irene Rossi sulla questione della costellazione dei fondi bibliografici e archivistici dei singoli architetti e ingegneri che hanno operato nel contesto dell’Appia Antica.
Emerge cruciale il messaggio nella sezione conclusiva del catalogo dove Simone Quilici, Michele Reginaldi, Luigi Oliva, Clara Spallino, Raffaella Rocchetta, Stefano Antonetti, raccontano gli scenari futuri.
Francesco Jodice, Via Appia, 2024, Villa De Laurentiis-Mangano.
Per quanto parziale, è un racconto che documenta le opportunità attuali, i progetti in fase di realizzazione, di restauro, riqualificazione e miglioramento della fruizione dei siti, in previsione delle scadenze del PNRR del 2026, andando anche oltre il Giubileo.
Non si tratta di un compendio, ma di una introduzione alle vicende che verranno. La mostra diventa così pretesto per una riflessione sulle prospettive future. L’Appia assume valenza di metaracconto. E se percorriamo a ritroso il percorso espositivo, il bucranio, quale frammento sopravvissuto, in cui viene depositato quello che la Storia ha dimenticato, rivela l’intento metanarrativo della mostra, e in riconoscimento di un suo valore simbolico, diventa strumento in grado di siglare la comunanza tra il palinsesto Appia e collettività, evidenzia il nesso tra identità collettiva e paesaggio, apre a nuove prospettive in un territorio in continua crescita e mutamento.
È un messaggio che nulla ha di utopistico, in cui l’Appia è, e deve essere concretamente intesa quale organismo, palinsesto di alternativa urbana, ancora oggi in definizione.