Con la mostra Mirrors, Windows, Mosaic – ricerche italiane curata da Nicola Bustreo il MuPa (Museo del paesaggio di Torre di Mosto) continua la sua attività di promozione e conoscenza delle visioni artistiche del territorio tra il Piave e la Livenza, luoghi dove la bonifica degli anni Trenta ha fatto emergere terre coltivabili al posto di acquitrini e malaria.
Foto di Alessandra Bello.
L’idea della mostra si ispira a Mirrors and Windows: American Photography since 1960 esposizione del 1978 al MoMA; ma oltre che per punti di vista e visioni su di sé (Mirrors) o sul mondo (Windows) qui c’è spazio anche per la condizione contemporanea della frammentazione, intesa sia come percezione del mondo che come sua ricomposizione (Mosaic). Uno sguardo che inevitabilmente va oltre lo spazio delle lagune e degli argini del basso Veneto, che cerca di indagare la natura e la consistenza dell’ombra, come scrive Giorgio Baldo, appassionato e instancabile direttore-ideatore del MuPa.
Stefano Ciol, Grafismi di Luce, Atri, 2011.
Convinto sostenitore dell’idea che il paesaggio sia narrazione, egli accompagna i visitatori attraverso le opere di ventidue artisti e fotografi facendo emergere le ragioni di una selezione. Tra le opere spiccano alcune che sanno fissare condizioni estreme o inaspettate; ma soprattutto quelle che oltre alla qualità tecnica e alla capacità di indagine della realtà sono capaci di coinvolgere il visitatore con la loro dimensione fisica. Perché certo il tema è l’ombra, ma Caravaggio non è van Eyck, né l’arte si può confinare in un monitor. L’ombra richiede una misura minima per essere percepita – per coinvolgere – esattamente come il paesaggio – selezione o trasformazione di un territorio che sia.
Louis Soubie, Presenza di paesaggio #13.
Non è quindi un caso se i due piani dell’esposizione sono introdotti dai ragazzi di Adriana Iaconcig, che come madonne rinascimentali offrono il dono prezioso dei paesaggi di cui sono parte; o dai riflessi delle vetrine di Venezia su cui Alessandra Bello stratifica infinite realtà e molteplici intimità. Così come Edoardo Cuzzolin sintetizza lo smarrimento del monitor, ma lo riscatta con una dimensione inaspettata; mentre le testimonianze di un mondo probabile di Louis Soubie obbligano il visitatore ad avvicinarsi oltremisura. Quale emozione potevano suscitare le Stanze di Francesca della Toffola dove carni algide si insinuano tra muri e materiali di cantiere?
Umberto Verdoliva, The city untitled.
O la sequenza Hitchcockiana di spazi compressi ritmati dalla luce in calle della Malvasia Vecchia di Umberto Verdoliva? Al di là della dimensione catturano però le ombre che segnano il terreno di Stefano Ciol; così come le immagini di sapore ghirriano o alla Magritte di Francesco Finotto, che restituiscono la condizione della costa adriatica dove il turismo balneare ha sostituito la pesca. La necessità di una misura adeguata delle opere è però fissata in modo inequivocabile da Renato D’Agostin: un braccio sporge dal ponte di Rialto nel tentativo di catturare il palazzo dei Camerlenghi – l’uomo misura il mondo.