Di origine e formazione professionale tedesca, sei arrivato in Italia più di 30 anni fa, conseguendo la seconda laurea a Milano e fondando qui lo studio internazionale di architettura del paesaggio LAND. Rispetto ad allora, in qualità di professionista coinvolto direttamente nella trasformazione della città, come riassumeresti i cambiamenti, specie dal punto di vista del verde e del paesaggio, che hanno investito e stanno investendo Milano negli ultimi anni?
Volendo ricostruire l’ultimo trentennio di trasformazioni di Milano, come di molte altre grandi città italiane ed europee, possiamo affermare che gli anni ‘80 hanno segnato un passaggio “strutturale”, con l’affacciarsi delle dismissioni industriali, fenomeno che inizia a modificare profondamente il tessuto urbano. A Milano abbiamo avuto la prerogativa del grande intervento della dismissione e del riuso dell’area Pirelli-Bicocca. Questa fase si è caratterizzata per un approccio improntato ancora alla semplice sostituzione: le vecchie funzioni produttive venivano rimpiazzate da nuove, quali residenze, uffici e università e il verde e il paesaggio avevano un ruolo puramente “decorativo”, assolutamente non portante. Era ancora il tempo in cui il modello della crescita continua non veniva messo in discussione. Pertanto l’architettura del paesaggio assumeva un ruolo di accompagnamento, non era ricerca di un nuovo paesaggio. A partire dagli anni ’90, fino ad arrivare al periodo attuale, il progetto di paesaggio ha conquistato un protagonismo sempre maggiore all’interno del disegno urbano. Il verde non è più un elemento esclusivamente vegetale, ma diviene elemento portante, strutturale. Noi, in qualità di professionisti che lavorano a Milano, abbiamo avuto l’opportunità di partecipare a tutto questo processo, dalla Pirelli-Biccocca alle aree ex Alfa Romeo, ex Fiat, ex Maserati, fino Porta Nuova, al centro della città, per la quale lo scorso mese abbiamo vinto il prestigioso riconoscimento MIPIM Awards 2018 per la categoria Best Urban Regeneration Project (http://www.mipimawards.com/mipimawards2018/en/page/home). Per arrivare fino ad oggi e a uno sguardo verso il futuro: stiamo lavorando al riuso del sito expo, che, proprio attraverso il tema della trasformazione del paesaggio, vuole diventare una nuova “Silicon Valley” per tutta l’Europa. Noi abbiamo vissuto in prima persona queste tre decadi di cambiamenti. Si può affermare che nell’ultimo decennio ci sia stato il passaggio verso l’imperativo (già ampiamente diffuso in America) “Landscape First!”: il paesaggio conquista un ruolo di primo piano, anticipa e costituisce la struttura di ogni intervento. La disciplina che in precedenza accompagnava gli interventi, ora li precede: oggi si pensa il paesaggio prima di costruire e questo influenza il progetto urbanistico e il progetto nel suo complesso.
Porta Nuova Varesine ©LAND.
Per decenni hai lavorato nel contesto della “vecchia” Europa, l’Europa del tessuto urbano denso e compatto. Molti dei tuoi progetti sono, per tua formazione e inclinazione, ricuciture e risignificazioni di paesaggi stratificati (spesso aree industriali dismesse), luoghi in cui è forte la tensione tra architettura e natura. Negli ultimi anni lo studio LAND ha perseguito un processo di internazionalizzazione e affrontato nuove sfide in paesi extraeuropei, tra cui Russia, Turchia, Brasile e Medio Oriente. Come muta l’approccio progettuale in questi contesti, caratterizzati spesso da un minor grado di antropizzazione e da una minore densità?
Ricordo sempre i miei professori universitari che mi insegnavano: “Il paesaggio esiste prima del paesaggista”. Questa considerazione apparentemente semplice, si rivela complessa nell’approcciare un tema progettuale, perché spesso ci troviamo di fronte a un intreccio molto complesso, non un semplice prima e dopo, tra natura e intervento umano, tra cosa appartiene alla fase pre-industriale, a quella industriale e a quella post-industriale. Nella nostra vecchia Europa esiste una costante tensione tra cultura e natura. In altri continenti vi è un minor grado di stratificazione e consapevolezza. Nel primo caso occorre procedere attraverso un attento lavoro sul tessuto esistente; nel secondo (ad esempio in Russia, Cina, Turchia e Brasile) capita di confrontarsi con scenari “nuovi” e “inesplorati”, come se fossimo chiamati a coltivare una natura “incontaminata”, priva di quella contrapposizione dialettica ricordata sopra e non compromessa dall’intervento umano. Alcuni di questi casi per il nostro studio sono il progetto di Expo 2020 Dubai, che inventa una nuova antropizzazione nel deserto, e la nuova Smart City di Mosca, che imposta una nuova città nell’ansa di un fiume: sono sfide che richiedono sì un’indagine sulla storia, ma racchiudono al loro interno minor tensione dialettica perché partono da realtà meno compromesse. Siamo fortemente convinti che ogni progetto abbia come momenti fondanti l’indagine e la profonda comprensione della genesi del luogo, del suo stato evolutivo e della società da cui scaturisce. L’indagine è davvero un processo “liberatorio“, come diceva Bruno Zevi, perché ci libera dalla soggettività; ci offre l’oggettività imprescindibile dell’essere su un determinato territorio, e di una determinata società. L’approccio progettuale in queste due tipologie di contesti e di esigenze è necessariamente differenziato, ma rimane caratterizzato da un’invariante: la ricerca sublime della natura autentica e lo sforzo di riconnettersi ad essa attraverso i nuovi interventi. Al giorno d’oggi, più ci addentriamo nelle realtà virtuali, più abbiamo bisogno di sviluppare un rapporto autentico con il territorio. Abbiamo un enorme desiderio di paesaggi che deriva dalla nostra spinta inconscia a riconnetterci con la natura, componente che nei grandi agglomerati urbani si pensa di non trovare più.
EXPO 2020 Dubai, Thematic Districts and Public Realm by LAND Italia, © Expo 2020 Dubai.
Ogni vostro progetto è ispirato dal motto “Reconnecting people with nature”. Secondo quali procedure e metodi lavora il vostro team per perseguire questo obiettivo?
Partiamo sempre da due elementi fondamentali: il sapere e la condivisione del sapere. Ogni gestualità slegata da una conoscenza del territorio che ha elaborato un proprio paesaggio rischia di essere – letteralmente – fuori luogo. Superata ormai da tempo l’epoca della determinazione, siamo oggi nell’era della “vocazione”. La vocazione non è altro che la presenza intrinseca ai luoghi di risorse o doni a partire dai quali si sviluppano le successive conoscenze. Solo se razionalizziamo le conoscenze e le mettiamo in fila possiamo poi trovare un “rimedio”, un intervento, una promozione (a seconda dello stato del luogo stesso) per un particolare contesto, che lo guiderà verso il futuro. Il paesaggio è come un organismo che va letto e capito nelle sue strutture fondamentali. Ma è anche vero che il paesaggio non conosce confine ed è in continua mutazione. Più, con il nostro team, riusciamo a definire gli elementi di flusso e di trasformazione, più saremo in grado di captare il reale “fabbisogno di paesaggio” del momento presente. E in questa fondamentale fase di indagine, ad esempio per i nostri progetti in Russia, abbiamo coinvolto persone russe, capaci di illuminarci con i loro occhi su determinati aspetti del contesto. Lo stesso abbiamo fatto con Expo 2020 Dubai. Il nostro team lavora dunque in un costante confronto tra vicinanza e lontananza, tra chi vive la dimensione locale di un territorio e ne è immerso e chi lo guarda da una posizione distaccata, con uno sguardo diverso. Da questa dialettica si sprigionano una più profonda comprensione, una maggior energia e di conseguenza, una migliore azione progettuale.
KruppPark, Essen, 2016 (Foto: Johannes Kassenberg).
Di fronte ai cambiamenti climatici in corso, qual è il ruolo del paesaggista? Quali azioni concrete state mettendo in atto, attraverso i vostri progetti?
All’interno del nostro studio siamo consapevoli che il tema del cambiamento climatico deve occupare il primo posto nella check list di priorità da affrontare e che, in base ad esso, i progetti devono essere ripensati in maniera radicale. Il cambiamento climatico è un fatto epocale. Occorre un’azione attenta sia al trattamento dei singoli elementi progettuali, sia a ciò che ognuno di essi, al di là della propria funzione specifica, riesce a fare in rapporto agli altri elementi. Nulla può essere più pensato da solo, tutto va commisurato all’insieme. Oltre a questo tema prioritario, ci sono altre due grandi categorie a cui ogni progetto è chiamato a dare una risposta molto chiara: produrre un miglioramento del benessere, dal punto di vista umano, sociale, della salute (per questo una delle nostre linee guida è “We create liveable places for people”); aumentare la biodiversità per un miglioramento del comfort ambientale che rispetti e valorizzi i nostri territori, spesso caratterizzati da sistemi biologici impoveriti. Queste tre priorità nel nostro approccio progettuale ne generano infine una quarta, che è riassumibile nell’espressione “Pensare Paesaggio”: pensare oltre le esigenze individuali e verificare cosa può offrire ogni progetto ad altri progetti, a una scala più vasta. Da questi assunti di base nasce necessariamente anche una nuova estetica, che non segue un canone predeterminato, ma si libera, si sprigiona dalla natura stessa.
KruppPark, Essen, 2016 (Foto: Oberhaeuser).
Un buon progetto di paesaggio, come ogni buon progetto, ha certamente il compito di rispondere in maniera ottimale a esigenze funzionali, sociali, estetiche, ambientali, infrastrutturali. Pensi che ci sia anche una componente “emozionale”, che coinvolge la sfera più intima dell’uomo, da tenere in considerazione quando si progetta? E se sì, quanto conta e come si affronta secondo te?
Noi ci chiediamo spesso quale sia l’essenza di un progetto. Secondo me la vera essenza di un progetto consiste sostanzialmente in tre fattori: come intenda lavorare con lo stato di fatto; come intenda rispondere alle esigenze funzionali del contesto; attraverso quale icona/immagine/elemento autonomo voglia comunicare tutto ciò. Oggi un grande valore risiede nella non determinazione, nella definizione di un quadro, sì incorniciato, ma che al suo interno lasci un grande margine di libertà. La vera componente di un progetto paesaggistico va allora oltre la necessaria presenza del cosiddetto “hardware”: è costituita dal software, cioè dai contenuti introdotti da chi lo usa, lo trasforma e lo vive. È importante che ciascun individuo possa trovarvi il proprio spazio, anche emotivo.