Razionalismo ambiguo o distopico
The Black Cat, di Edgar G. Ulmer del 1934 è un film horror con Boris Karloff e Bela Lugosi, “bizzarro cocktail di necrofilia, satanismo, sadismo e spavento” (il Morandini). Osserviamo la quasi irriconoscibile sagoma esterna della Ennis House di Frank Lloyd Wright unicamente in una sbiadita veduta, in cima a una collina contornata da croci cimiteriali.
Gli interni – non corrispondenti alla realtà, realizzati dallo scenografo Charles D. Hall – sono molto interessanti e caratterizzati da stilemi mutuati da un razionalismo anodino: linee pure, griglie ortogonali – vetrate, controsoffitti illuminati, pareti a pannelli – spezzate da una grande scala elicoidale in acciaio, un soppalco sorretto da una lama triangolare bucata da oculi, pilastri a lame oblique. Gli arredi fissi e mobili sono lineari e “moderni”.
Ma le fredde linee razionali della parte superiore della villa nascondono un mistero agghiacciante: una stretta scala a chiocciola metallica conduce ai sotterranei definiti da ambienti decisamente espressionisti. Pesanti pareti in blocchi di cemento in alcuni spazi inclinate, lastre metalliche borchiate a definire una prigione che nasconde una donna appesa come un manichino e spazi per riti occulti con luci radenti e ombre lunghe, pilastri inclinati, pareti nere ed elementi scenografici composti da una sorta di altare con cunei, croci multiple, obelischi. Il razionalismo, in questo esempio, nasconde ombre e angosce.
La scenografia è curata anche dallo stesso Ulmer che affermava di aver lavorato – con pessimi rapporti – con Hans Poelzig sul set de Il Golem di Paul Wegener: nel film lo scienziato criminale austriaco – Hans Poelzig era tedesco – si chiama proprio Poelzig.
Edgar G. Ulmer, The Black Cat, 1934.
In A me la libertà! (À nous la liberté) del 1931, René Clair propone una critica alla progressiva automazione e alienazione della società votata al progresso con il consueto disincanto ma utilizzando tempi comici un po’ datati e satira che non raggiunge veri e propri apici surreali.
Colpito e tagliato dalla censura fascista il film è noto anche per la sequenza alla catena di montaggio adottata da Chaplin in Tempi moderni.
Due amici carcerati tentano di evadere; uno di loro non riesce nell’intento e quando viene liberato si trova ad essere operaio – per amore verso la figlia del proprietario – nella fabbrica di proprietà dell’amico evaso che nel frattempo ha fatto fortuna. Tra gag, sogni, equivoci, malandrini e ricatti il padrone dona la fabbrica agli operai, una valigia di banconote è sparsa al vento e i due amici si allontanano “liberi”.
Decisamente interessanti sono le scenografie realizzate da Lazare Meerson. Le sequenze dei detenuti costretti a una sorta di catena di montaggio e condotti ordinatamente in fila, presentano analogie con Metropolis. Gli spazi della prigione sono a doppia altezza con un ballatoio aggettante dal quale le guardie controllano, con scalette di accesso, scanditi da portali strutturali a vista con pilastri rastremati e luce che proviene da lucernari zenitali. Del tutto simili sono gli spazi interni alla moderna fabbrica con la famosa catena di montaggio e gli operai che si muovono in ordinate file similmente ai carcerati.
L’esterno della fabbrica – composto da volumi stereometrici, dipinti asetticamente di bianco e rigorosamente razionali – è una sorta di collage di opere di Gropius e Le Corbusier. Grandi vetrate con serramenti a griglia metallica, selve di comignoli a tronco di cono rovesciato, alti tralicci metallici, volumi bianchi tagliati da finestre a nastro o grandi vetrate, scale di sicurezza con rampe in cemento dallo spessore esile, volumi aggettanti in vetrocemento, angoli svuotati, finestre a nastro con griglie di aerazione, esili velette curvilinee aggettanti, caratterizzano l’esterno.
Gli spazi interni bianchi a più altezze sono attraversati da rampe di scale simili a nastri che si incrociano e sono illuminati da una forte luce proveniente dalle pareti vetrate.
In questo esempio l’architettura razionalista è sinonimo di angoscia, vessazione, alienazione ed è protagonista di buona parte del film.
René Clair, À nous la liberté, 1931.
René Clair, À nous la liberté, 1931.
Altre scenografie
Utopia Un significativo esempio di scenografia di una città utopica è costituito da quella che Stephen Goossom realizza per Orizzonte Perduto. Un gruppo di persone in fuga da una guerra decolla a bordo di un aeroplano dirottato tra le montagne del Tibet a Shangri La: una città da sogno con clima mite, dove non esistono crimine, denaro e liti; gli abitanti vivono in pace e godono di una spiazzante longevità.
Questa la sintesi del film Orizzonte Perduto (Lost Horizon) di Frank Capra del 1937 corroborato dalle scenografie di Stephen Goossom che inventa una città ideale costruita in un ranch tra Verdugo e Hollywood way a Burbanck in California: il monastero dispone di un set largo 150 metri, lungo 300 con prospetti alti 30 metri. Lo sfondo delle montagne è realizzato con una proiezione su vetro a effetto 3D. La valle con la città è l’Ojai Valley in California ripresa dalla Highway 150; altri luoghi di riprese sono un ranch lungo Mullholland Drive, un laghetto a Brebt Crags nel Malibu State Park, la Sherwood Forest vicina a Hollywood, il Metropolitan Airport – in seguito Southern California Van Nuys Airport –, la Sierra Nevada che sostituisce l’Himalaya, un deserto vicino al Mojane Lucerne Dry Lake a Victorville.
La progettazione dei numerosi set con riprese in celle frigorifere per simulare la neve e la condensa del fiato, oltre a macchine apposite per creare valanghe con fiocchi di mais e ghiaccio triturato, occupa un anno di lavoro.
Il monastero – un’apparizione da sogno di edifici completamente bianchi dove vige la simmetria assoluta – è un insieme di volumi stereometrici con angoli o testate curvilinee, grandi finestre a nastro verticali e orizzontali, scalinate monumentali, terrazze e logge segnate da onnipresenti serie di pilastri cilindrici, giardini delimitati da basse abitazioni con affacci a pianta semicircolare e lunghe pergole, velette aggettanti, decorazioni che ripetono il disegno del mandala (simbolo tibetano dell’immortalità). Porte e bucature sono dotate di griglie a motivi geometrici o floreali. Gli interni sono essenziali, illuminati da grandi vetrate, attraversati da grandi pilastri cilindrici; lo spazio principale è definito da una grande scala con base a più rampe e una vertiginosa scala elicoidale in forma di nastro a sbalzo con pilastri centrali, che conduce agli spazi dove abita il centenario Lama.
Il linguaggio non classificabile è costituito da un insieme di purismo neoclassico, postmoderni inserti antichi, volumi e bucature vagamente razionaliste con ornamenti che alludono a una cifra lontanamente wrightiana.
Frank Capra, Orizzonte Perduto (Lost Horizon), 1937.
Gioco di rimandi incrociati La maggior parte dei film hollywoodiani degli anni Trenta e Quaranta sono uniformati da scenografie disegnate da pochi personaggi che esercitano un dominio assoluto anche nella supervisione dei film e si dividono il potere delle grandi major. Cedric Gibbons, ad esempio, realizza scenografie e controlla i set di un migliaio di film, coordinando uno stuolo di assistenti lasciati nell’anonimato; Gibbons è anche l’ideatore della statuetta del premio Oscar che vince undici volte. Ricordiamo alcune sue rappresentative scenografie di interni in film quali Dancing Daughters del 1928, A Woman of Affairs del 1928, The single Standard del 1929, The Easiest Way del 1931, Men Must Fight del 1933, oltre a La folla (The Crowd) – che abbiamo precedentemente incontrato –, The Kiss (Jacques Feyder e Cedric Gibbons copiano il soggiorno della casa Mallet-Stevens per realizzare la loro scenografia), la dimora a Santa Monica dello stesso Gibbons e della moglie Dolores del Rio e Grand Hotel, qui di seguito.
Grand Hotel di Edmund Goulding del 1932 riunisce in un complesso spazio interno un microcosmo di persone che costituisce una sorta di caotico mondo parallelo: “Grand Hotel: gente che viene, che va, tutto senza scopo…”. Le scenografie restituiscono una sorta di Art Déco semplificato e razionale con grande hall, ingresso con enorme bussola girevole in vetro e metallo, arredi geometrici e pavimento a scacchi bianchi e neri a griglia spiraliforme che aumenta la restituzione della profondità delle riprese. Il cuore dello spazio è costituito da un enorme spazio centrale a tutt’altezza a pianta circolare definito da ballatoi curvilinei sovrapposti di accesso alle camere ritmati da pilastri cilindrici, con parapetti scintillanti in metallo lavorato, che si affacciano verso il bancone centrale – anch’esso a pianta circolare – della reception al piano terra. I ballatoi e la hall sono gli spazi dove si incrociano i destini di tutti i personaggi.
Lo scenografo Vincent Korda – di origini ungheresi, fratello del regista e produttore Alexander – si trasferisce in Inghilterra. Abbiamo incontrato le sue scenografie futuriste con accenni al razionalismo nel già citato film La vita futura (Things to Come) del 1936 di Menzies e ricordiamo Major Barbara del 1941 di Gabriel Pascal, Harold French e David Lean, The Third Man di Carol Reed del 1949 con Orson Welles, To Be or Not to Be di Ernst Lubitsch del 1942.
Edmund Goulding, Grand Hotel, 1932.
Idolo infranto (The Fallen Idol) di Carol Reed del 1948 “è un piccolo capolavoro di psicologia infantile, ricco di annotazioni sottili e sostenuto da una regia immaginosa, un tour de force visivo (1.040) inquadrature dal punto di vista del bambino per il quale il mondo degli adulti è contorto” (il Morandini).
L’edificio (l’ambasciata) nel quale si svolge la maggior parte del racconto filmico è la sede della St John’s Ambulance Organisation in Belgrave Square a Londra, il cui balcone si affaccia sul Wilton Crescent a pianta semicircolare. Il grande atrio ottocentesco dell’ambasciata, bianco con pavimento a scacchi bianchi e neri, contraddistinto da un grande scalone curvilineo e da un ampio ingresso, con il via vai di persone e le riprese dall’alto, assomiglia decisamente a un grande hotel.
Una delle caratteristiche principali è costituita dalla macchina da presa ad altezza degli occhi del bambino; posizione che enfatizza le dimensioni degli spazi unitamente a sequenze ruotate che preludono a qualcosa di orrendo che sta per accadere, sottolineano i momenti di maggior tensione e riproducono l’angoscia che prova il bambino stesso.
Le inquadrature dal basso o sghembe realizzate da Reed saranno assorbite e adottate in termini maggiormente enfatizzati da Orson Welles.
Carol Reed, The Fallen Idol, 1948.
L’appartamento (The Apartment) di Billy Wilder del 1960 è “uno dei capolavori di Wilder. Cinico, divertente e amarissimo. Ritratto della solitudine metropolitana. Commedia drammatica o dramma comico? Un raro esempio di equilibrio perfetto tra le 2 componenti” (il Morandini).
Cito il film in ragione delle inquietanti sequenze dell’immenso ufficio con infinite ordinate scrivanie, del tutto simili a quelle che abbiamo incontrato in La Folla e che incontreremo ne Il Processo. Inoltre, quando l’esausto protagonista si siede davanti al televisore, il film annunciato – nonostante le assurde interruzioni pubblicitarie – è proprio Grand Hotel.
L’edificio in cui lavora il protagonista è in Broadway e Stone Street, Manhattan: è terminato nel 1959 – quindi appena concluso all’epoca del film – uno dei primi edifici per uffici modernisti a Manhattan, progettato da Emery Roth & Sons. Il prospetto è stato, purtroppo, rifatto nel 1999 con un anodino curtain wall ideato da Skidmore, Owings & Merrill.
Billy Wilder, The Apartment, 1960.
Un capolavoro tra archeologia industriale e modernismo brutalista
Il processo (Le Procès) di Orson Welles del 1962 interpretato da un grande Anthony Perkins e da altri famosi attori, oltre a Welles stesso, “è una sconvolgente, geniale, visionaria versione del famoso romanzo (…) di Kafka, girata in Jugoslavia e a Parigi (la Gare d’Orsay in disarmo) e ambientata ai giorni nostri. Welles rilegge Kafka, e ne fa un film di grande potenza barocca sulla civiltà delle macchine, sull’uomo-massa e sulla crisi d’identità, risolvendo la vicenda con una esplosione atomica” (il Morandini).
Decisamente interessante è il contrasto a sorpresa tra archeologia industriale (la Gare d’Orsay abbandonata), gli edifici modernisti-brutalisti realizzati a Zagabria a partire dagli anni ’50 nel nuovo enorme quartiere lungo la Ulica grada Vukovara, i piccoli edifici storici residui del quartiere o delle vie di Zagabria stessa e alcuni edifici storici monumentali.
Il prologo del film è costituito da disegni che rappresentano la porta della legge, un guardiano e un uomo che aspetta inutilmente. L’atmosfera da incubo è subito comunicata allo spettatore dal fuori scala allestito nella stanza di Josef K. e negli altri ambienti della pensione – dove gli comunicano che è sotto accusa – caratterizzata da soffitti e porte basse rispetto all’altezza dei personaggi, determinando una sensazione di claustrofobia e impotenza.
L’edificio nel quale si trova la pensione è un blocco in linea modernista distribuito da ballatoi; è limitrofo ad altri alti elementi in linea con finestre a nastro o torri incombenti. Gli edifici si trovano a Zagabria in Ulica grada Vukovara.
Orson Welles, Le Procès, 1962.
K. si reca negli uffici: enormi spazi scanditi da portali strutturali, ballatoi laterali e passerelle che lo attraversano o recintati da un muro perimetrale, alti pilastri, copertura con struttura reticolare ed enormi luci appese. Una selva di scrivanie a perdita d’occhio perfettamente allineate ci ricorda l’ufficio de La Folla o de L’appartamento. Vediamo lo spazio degli uffici colmo di gente, mentre la gente all’unisono si alza ed esce, o completamente vuoto con mutamenti continui della percezione dello spazio. Lo spazio è ricavato in uno dei padiglioni realizzati negli anni ’50 alla Fiera di Zagabria in Avenija Dubrovnik.
Tutti gli ambienti sono filmati o dall’alto – con una percezione incombente dello spazio e del racconto – o dal basso – posizione che aumenta la sensazione di angoscia o impotenza. K. esce dallo studio, entra in spazi con strutture e scale che si intrecciano – simili a carceri piranesiane – e improvvisamente apre una porta e si trova in un salone con balconata e palco, stipato di persone, che costituisce la sala del tribunale dove si celebra il suo processo. Se ne va uscendo da un enorme e incombente portone fuori scala e rientra nel vasto spazio degli uffici. Rientra in seguito nel tribunale mentre la sala è completamente vuota e straniante con luci radenti. L’impressione trasmessa è che il protagonista si stia muovendo in spazi e luoghi differenti ma che di fatto sono uno accanto all’altro in un enorme edificio.
Orson Welles, Le Procès, 1962.
Quando esce, K. percorre un’enorme scalinata con statue fuori scala e incombenti colonne e portici di un grande palazzo storico: è il palazzo di Giustizia di Roma (Guglielmo Calderini, 1889-1911). Dopo uno stacco con l’immagine di K. e della nipote che proiettano ombre radenti perpendicolari alle linee astratte della gradinata, ci troviamo in un quartiere con alti palazzi in linea a superfici vetrate; successivamente percorriamo una scalinata che conduce a un edifico a piastra con pareti vetrate. Siamo ancora in Ulica grada Vukovara a Zagabria e l’edificio a piastra è parte del complesso della Arbeiteruniversität Mosa Pijade (università per lavoratori, ora Public Open University Zagreb-POUZ) progettata da Radovan Nikšić e Ninoslav Kučan nel 1955-61.
K. dopo il paradossale e inquietante colloquio – inseguito da ragazzine lungo una scala a chiocciola – assieme al pittore Titorelli esce da una chiesa: alle sue spalle si nota la grande facciata della cattedrale di Zagabria. Acciuffato da due uomini viene condotto lungo strade deserte e notturne di un centro storico illuminato da luci radenti, e raggiungono un complesso di alti edifici a lama modernisti. Scorgiamo il prospetto ondulato dell’edificio modernista in linea Veselka Tenžere di Božidar Rašica.
Mentre i personaggi transitano sotto un portico notiamo un grande pilastro lecorbusieriano: le fattezze costruttive del pilastro e dei giunti delle gettate cementizie assomigliano decisamente a quelli dell’Unité d’Habitation di Marsiglia: è l’edificio per abitazioni in Ulica grada Vukovara di Drago Galić del 1953. Il percorso prosegue all’interno di un borgo di casette, lungo uno spiazzo con la grande scultura simile a un angelo con le braccia aperte, fino alla buca dove K. viene fatto esplodere.
Orson Welles, Le Procès, 1962.