Pubblichiamo di seguito alcuni brani dell’intervista a Giovanni Michelucci (1891–1990), relativi alla progettazione e costruzione della chiesa “dell’Autostrada”.
L’intervista, intitolata La chiesa: un diario progettuale, è stata realizzata da Fabrizio Brunetti e fa parte del catalogo della mostra La città di Michelucci (Edizioni Parretti, Firenze), tenutasi nel 1976 all’interno della basilica di Sant’Alessandro a Fiesole.

Foto: ©Filippo Poli.
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(…)

Siamo arrivati alla chiesa dell’Autostrada, questo edificio che, direi, più di ogni altro l’ha reso famoso a livello internazionale.
Per la chiesa dell’Autostrada il discorso è molto diverso. In quel luogo si stava già costruendo una chiesa per conto della Società Autostrade; poi per una certa contestazione forse di natura culturale io fui invitato a “rimediare” il progetto. Tuttavia rifiutai quell’incarico per delicatezza verso un professionista che non intendevo avvilire andando a fargli da maestro.
Comunque, dopo molte discussioni, fui invitato a fare un nuovo progetto. A questo punto accettai, autorizzato e, anzi, sollecitato dallo stesso professionista. La cosa era del tutto corretta sia sotto l’aspetto professionale sia sotto quello umano e operativo. Accettai, dunque, ponendo la sola condizione che non mi venisse imposto alcun limite di tempo per la progettazione. Questa mia richiesta fu accolta, ma mi si chiese di utilizzare le opere d’arte che già erano state realizzate per la chiesa prima progettata.
Per quanto riguarda le porte, consentii ad utilizzarle tutte, tranne quella del battistero, perché troppo monumentale. Fortunatamente lo scultore, molto comprensivo, accettò di modellare quella attuale. Per il resto, certi elementi della chiesa sono stati condizionati dall’utilizzazione delle porte; non c’è dubbio, per esempio, che le dimensioni dell’ingresso e dell’atrio siano state determinate da quelle della porta già modellata.
Dunque cominciai, pur con queste limitazioni, il mio lavoro. La domanda che mi ponevo era che tipo di edificio dovesse trovare chi arriva, stanco o eccitato, da Roma o da Milano. II mio pensiero si fermò sull’idea del percorso: il visitatore, che passava da un percorso di tipo meccanizzato e da una velocità meccanizzata alla velocità dell’uomo che cammina, avrebbe dovuto avvertire di continuare il suo percorso ma ad un passo diverso, e ricercando sensazioni diverse da quelle provate durante il viaggio. Nacque così un disegno fondamentale, uno dei primissimi disegni della chiesa che indica un percorso molto articolato che dalla quota del terreno porta in alto fino alla croce. In questo percorso pensai di dover inserire numerosissimi spazi che potessero rispondere alle varie esigenze del visitatore.
Seguendo questo concetto di fondo cominciai a delineare planimetricamente percorsi e spazi di sosta, orientando lo sguardo del visitatore verso certi elementi che potevano fargli riconquistare il senso della propria umana statura: infine un ridimensionamento. Entrando, ad esempio, dal battistero si trova un prato con gli ulivi: un episodio che può ricordare l’orto di casa, ma che può anche richiamare alla memoria l’orto di Getsemani. L’insieme di questi episodi, collegati tra loro, dovevano, a mio avviso, portare il visitatore a pensare qualcosa, a ristabilire un rapporto con le cose che hanno influito sulla sua formazione. E questo senza mai forzarlo a considerare le forme architettoniche, ma facendolo partecipare di questi spazi e di queste notazioni che via via gli vengono suggerite durante il percorso.
Sempre nel battistero vi è da notare un particolare: che il sacerdote svolge la sua funzione ad un livello più basso rispetto a quello cui si ferma il pubblico in modo che le mura quasi spariscono e la forma del battistero viene praticamente delineata dall’insieme delle persone che assistono alla funzione e che avvolgono il fonte battesimale.
Il percorso che inizia dalla porta del battistero e raggiunge l’aula principale è un percorso a piano di campagna che mette sempre il visitatore in comunicazione visiva con l’esterno, cosicché dalle aperture si vedono passare le auto veloci sull’autostrada. Si può dire, quindi, che con la chiesa dell’Autostrada è nato – o, meglio, si è più manifestamente sviluppato – il concetto di aprire la chiesa, o certi spazi della chiesa, verso l’esterno per evitare uno sbarramento nei confronti della vita che si svolge al di fuori.

Vedute prospettiche interne ed esterne con appunti grafici, 1961. Penna e inchiostro su carta; Proprietà del Comune di Pistoia. AD0051 – Archivio Disegni Giovanni Michelucci.
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Queste innovazioni indubbiamente di carattere rivoluzionario – se si pensa ad una certa staticità di alcuni settori più tradizionalisti delle alte gerarchie ecclesiastiche – in che modo furono accolte?
Non c’è dubbio che, in un primo tempo, queste innovazioni suscitarono preoccupazioni: pareva a taluni che fossero una vera e propria eresia, ma, pian piano, anche questa chiesa è stata accettata.

Vediamo ora la descrizione degli spazi e dei percorsi, così come lei li aveva immaginati.
Ho parlato del percorso al piano terra; ma ce n’è uno al piano superiore che attraversa alla quota di m 4.80 quella galleria che io avevo definita processionale, in quanto ritenevo che una processione, come si fa normalmente nelle chiese, doveva iniziare dall’aula, attraversare questa galleria, per poi uscire, percorrendo gli argini pavimentati, per rientrare, infine, nella chiesa. Purtroppo, con le sculture situate, come in una esposizione d’arte, il concetto della galleria non appare più in tutta la sua chiarezza. Riprendendo il discorso, dalla galleria si passa all’altare dei matrimoni che avevo previsto così in alto, perché consideravo il giorno del matrimonio come un giorno felice, di festa, pieno di promesse e volevo che gli sposi potessero spaziare con Io sguardo in tutta la chiesa, trovandosi in quella posizione sopraelevata. Intendevo, insomma, aprire questo spazio in maniera non spettacolare, ma che potesse destare un interesse grande o piccolo verso tutto quello che avveniva nella chiesa e al di fuori nei campi e sull’autostrada. Naturalmente tutto ciò non è servito a nulla poiché, in quella chiesa, ogni matrimonio è proibito. Anche in questo senso, dunque, è stato tradito un po’ lo spirito con cui mi ero dedicato alla progettazione. Però quello che è importante – e che rimane – è la visione dell’aula dall’alto e la possibilità di partecipare anche da questa quota al rito che si svolge all’altar maggiore.

Foto: ©Filippo Poli.
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La chiesa dell’Autostrada ha interessato molto anche per le particolarissime strutture in cemento armato. Vuole parlare un po’ della genesi di queste strutture?
Dal punto di vista strutturale, quella che sembra una libertà formale, i pilastri che si diramano in alto, sono in realtà il risultato di un discorso molto semplice. Il frazionamento di quei pilastri ha lo scopo di evitare delle strutture eccessivamente pesanti. Il concetto è elementare: ho pensato di concentrare i carichi sulle basi frazionando la parte superiore del pilastro. È questa una libertà che mi ha consentito il frazionamento dello spazio. E questo mi sembra importante: il sentire, cioè, la complessità dello spazio. Tutti questi elementi che, in fondo, non conducono ad un pensiero logico ma sembrano il frutto di una libertà fantastica, sono, in realtà, di una logica rigorosa; posso dire che in quella chiesa non c’è un elemento che sia falso.

Ma, se non sbaglio, il rigore strutturale, verso il quale si era indirizzato durante il periodo del suo insegnamento alla facoltà d’Ingegneria di Bologna e che l’aveva portato alla raffinatissima copertura della chiesa di Larderello, si era già di molto mitigato e aveva trovato un maggiore equilibrio con le esigenze spaziali.
Si, questo è vero; infatti, per quanto riguarda la chiesa dell’Autostrada, ho pensato alla possibilità che le strutture non dovessero giustificarsi rigorosamente dalla base fino al colmo della copertura. Era un fatto nuovo per me. Pensai che esse potevano nascere da dove spazialmente ritenevo più utile che nascessero; per cui mi è avvenuto di far spuntare certi elementi di sostegno della tenda anche da una massa muraria che mi è servita per animare lo spazio. Mi ero reso conto che non potevo impedirmi questa libertà e ritengo che ciò rappresenti un passo in avanti fatto venendo via dalla facoltà d’ingegneria di Bologna. Perché, come ho già detto, a Bologna esigevo che la struttura fosse pura dal principio alla fine. Con una rinuncia acquistavo una grande libertà che giustificava la rinuncia stessa.

Foto: ©Filippo Poli.
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Lo studio di questo progetto l’ha occupato per un tempo assai lungo – circa tre anni, mi pare – e si è trattato di uno studio, di una processualità, come lei ha detto altre volte, molto faticosa. Sarebbe interessante che ora ricordasse brevemente in che modo ha portato avanti, materialmente, questo progetto così rivoluzionario e anche così difficile da rappresentare (proprio per l’essere tanto diverso da ogni altra tipologia) e da far comprendere alle maestranze impegnate nella costruzione.
Lo studio è stato talmente difficile e faticoso che mi ha ridotto all’esaurimento. Immaginare spazialmente tutti i momenti dall’edificio è stato di una difficoltà eccezionale. Difficile doverlo disegnare. In alcuni punti sono state necessarie da tre a quattro sezioni in un metro di costruzione, e sezioni particolarmente complesse. Tuttavia devo dire che sono stato fortunato perché ho potuto trattare con un personale bravissimo e con operai intelligenti e sensibili.

Per la comprensione degli spazi e per la messa a punto delle forme si è aiutato anche con modellini?
No! Non ho usato nemmeno un modello. I modelli sono venuti dopo, quando la chiesa era ormai in fase di costruzione avanzata. In realtà non ne avevo bisogno, riuscivo a pensare lo spazio. Ho avuto anche la fortuna che il dimensionamento delle strutture come lo avevo indicato io così, come si dice, “a sensazione” ha risposto alla verifica del calcolo, per cui non ci sono state variazioni sostanziali nel progetto. E questa per me è stata una consolazione.
Una sola cosa c’è da dire nei riguardi delle strutture: in principio avevo pensato che la tenda fosse realizzata in metallo, ma ciò non fu possibile perché sorsero vari impedimenti nei confronti di questo mio pensiero e desiderio, per cui la copertura fu costruita in cemento. Io non ho troppa competenza in materia di scienza delle costruzioni e non posso giudicare se la copertura poteva essere realizzata in modo diverso da come è stata realizzata. Comunque alcuni miei disegni mostrano che la tenda era stata immaginata con uno spessore assai sottile.

Studio di sezione, 1964. Penna, pennello e inchiostro su carta; Proprietà del Comune di Pistoia. AD0089 – Archivio Disegni Giovanni Michelucci.
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Ritiene che le preferenze date ad un materiale piuttosto che ad un altro fossero soltanto derivanti da reali impedimenti di natura tecnica o dipendessero anche da fattori abbastanza diversi? Per essere più chiari da fattori economici?
Credo, ma non posso affermarlo con sicurezza, che in quell’occasione siano intervenuti fatti di natura diversa, forse di carattere esecutivo ed economico, ma io mi sono tirato completamente da parte: consegnavo il disegno, ne seguivo l’esecuzione perché rispondesse alle mie intenzioni, ma non sono mai intervenuto nelle questioni tecnico-economiche; e non avevo il diritto di intervenire in quanto io ero il progettista e il direttore artistico e non altro.

Un’altra cosa che non è stata realizzata è il percorso sul tetto della chiesa. Eppure esso era un elemento qualificante del suo progetto, tanto più che, come lei ha detto poco prima, l’originario schema progettuale, quello che ha determinato anche la forma dell’edificio, era la rappresentazione grafica dei percorsi che dal livello del terreno dovevano arrivare fino alla sommità della copertura.
Il percorso sul tetto, che, in effetti, io ho messo in evidenza nella maggior parte dei miei disegni, fu proibito dalla curia.

Ma il percorso esiste? È stato realizzato?
Esiste perfettamente. Occorre solo una scaletta di due metri e mezzo per accedervi. E si tratta di una strada meravigliosa. Ma si pensava che fosse pericolosa. In realtà era sufficiente mettere un parapetto che io avevo previsto e che si può notare perfettamente in uno dei disegni. Tornando, comunque, al percorso, è, come ho detto, una strada bellissima; una parte è aperta e un’altra è in trincea, una trincea immensa; e vedere la tenda dall’alto è uno spettacolo impressionante.

Foto: ©Filippo Poli.
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Lei ha parlato della chiesa dell’Autostrada come di un edificio che dovrebbe ispirare sentimenti di gioia e di felicità, quasi un senso fantastico, ma spesso i visitatori ne escono con un sentimento di angoscia perché dicono di aver avvertito profondamente in quegli spazi la presenza della morte.
Io non so se questo avvertire la morte sia giudicato un fatto totalmente negativo da queste persone o, all’opposto, altamente positivo.
Generalmente della morte si è sempre avuto timore e la sua “presenza” non è gradita. Forse oggi si ha con essa più confidenza che in passato: se ne parla ogni giorno, nei giornali, in parlamento, in famiglia, per tutto quello che sta avvenendo nel mondo. Ma si tratta di morti violente, innaturali, dovute in gran parte alla stoltezza degli uomini che credono di risolvere i loro problemi, o quelli della comunità, uccidendo. Questa è la morte che è giusto temere, non l’altra, quella naturale, quella che forse alcune persone avvertono nella chiesa dell’Autostrada.
Comunque quella presenza della morte non potrebbe non essere avvertita perché mi accompagna in ogni momento della mia giornata e non può quindi non essere riflessa nei miei lavori. Ma in me non è un pensiero né triste né angoscioso. Non dico che la morte è la leopardiana “bellissima fanciulla, dolce a veder…”, ma una lenta conquista che si realizza in infiniti momenti di certezze rasserenatrici e di dubbi dolorosi; una liberazione dell’individuo dal proprio egoismo verso il raggiungimento di una nuova, più ampia e più generosa dimensione del vivere.
Del resto, ragione di soddisfazione per me architetto è che quella mia costruzione non lascia il visitatore indifferente; lo induce a “pensare”, lo sollecita a prendere coscienza del contenuto esistenziale dell’opera attraverso il linguaggio dei suoi spazi.
Dove questo realmente avviene, dovrei pensare di avere raggiunto il fine che, a mio avviso, è proprio dell’architettura. Ma posso credere di essere arrivato a tanto? Nel forte dubbio vorrei invitare il pubblico ad andare a meditare sugli spazi brunelleschiani e particolarmente su quelli dell’Ospedale degli Innocenti e del Chiostro grande di S. Croce, nei quali la “presenza” della morte si traduce in un sereno, meditato richiamo alla vita, alla natura, alla città; oppure vada a meditare sugli spazi borrominiani, e particolarmente su quelli di S. Carlino alla Quattro Fontane; spazi che parlano dell’aspirazione ad un mondo dove il dolore abbia un suo confine, oltre il quale sia possibile trovare pace.
Ma ritornando a più modesti argomenti, la presenza della morte non è assente neppure nella chiesa di San Marino, che, tuttavia, risulta più serena nella sua apparenza; sia perché più piccola, sia perché la città penetra effettivamente nella chiesa. Invece la chiesa dell’Autostrada è isolata dalla città, e tutto il mio sforzo è stato volto ad inserirvi elementi e indicazioni che richiamino la città lontana.

Foto: ©Filippo Poli.
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Del resto, cinque o sei anni fa, lei è tornato sul tema della chiesa dell’Autostrada ripensandola come un vero e proprio elemento urbano e facendo, mi pare, un disegno molto interessante in questo senso.
Si, proprio per questo ho fatto un disegno, una “fantasia” che inviai a Portoghesi; disegno in cui una strada passa nel grembo della tenda e su quel percorso fantastico ho indicato vari elementi costruiti in maniera tale da permettere alla gente di potersi trattenere sulla tenda della chiesa e, di lassù, godere la vista del paesaggio e della città lontana. Da qualche tempo sento imperioso il bisogno di collegare, di far penetrare gli edifici dalle strade, di far sentire che non ci sono più i muri, o, meglio, che i muri vivono, come vive lo spazio, e non sono recinzioni statiche o morte. Questo è, per me, un punto fondamentale, tant’è vero che le costruzioni ultime, che ho realizzato o soltanto progettato, sono tutte penetrate dalla vita. Ripeto che per me tutto questo è molto importante, anche perché questi percorsi traducono il mio bisogno di investire di vita gli edifici, di inserire in essi singoli spazi che suggeriscano qualcosa di profondamente vitale per chi sa o vuole captarlo.

(…)

Ripensando un momento all’iter progettuale relativo alla tipologia della chiesa che abbiamo insieme ripercorso, mi sembra di poter riassumere che successivamente al progetto per Larderello è nata una profonda frattura col passato nel senso che con quella realizzazione si è concluso quel periodo in cui lei aveva affrontato il tema dell’edificio religioso come cosa a sé stante.
Sì, quella di Larderello è ancora una chiesa tradizionale, anche se ha le caratteristiche interessanti cui ho fatto precedentemente cenno. La prima rottura si verificò con il progetto della chiesa del Belvedere. Con questo edificio si è, per la prima volta, creata una spaccatura tra l’interesse prevalentemente estetico e l’interesse spaziale. Ciò mi ha permesso di intraprendere quel nuovo cammino che porta alla chiesa dell’Autostrada, passa per quella di San Marino, arriva ad Arzignano, a Sesto e, ora, per ultimo, a Livorno. Dal Belvedere in poi il discorso è uno solo, l’obiettivo è uno; anche se ogni progetto ha caratteristiche proprie particolari. Ormai posso dire che per me la forma architettonica non ha più nessun interesse, che vorrei realizzare le mie opere con i materiali più poveri esistenti; infatti, uso il ferro e il cemento armato, quando ce n’è davvero bisogno; ma nudo così com’è, senza rivestirlo di alcun arricchimento decorativo. Quello che mi interessa, invece, è fare costruzioni sempre più vive, da cui emanino continui suggerimenti e richiami a vivere “in un certo modo” che può essere quello sociale o comunitario o di isolamento contemplativo, non importa quale; basta che questi edifici favoriscano e sollecitino l’arricchimento e la pienezza della vita. A me pare che questa strada consenta una maggiore libertà fantastica e proponga un autentico modo di vivere l’architettura attraverso lo spazio liberando l’individuo dalla soggezione dell’opera architettonica autoritaria che nasce con la pretesa e la presunzione dogmatica di esprimere il “verbo”.

Vedute prospettiche della tenda, 1963. Penna, pennello e inchiostro su carta; Proprietà del Comune di Pistoia. AD0074 – Archivio Disegni Giovanni Michelucci.
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