…ho detto che il lungo, lunghissimo cammino dell’architettura umana è come una caramella racchiusa all’interno di due estremità attorcigliate, che rappresentano i due momenti di internazionalismo. Ma oggi penso, osservando questo secondo internazionalismo, che il mio interesse per l’architettura risieda nel come richiamare nel tempo presente il primo.
Terunobu Fujimori
Sin dalla copertina, che illustra una singolare piccola costruzione sollevata da terra e immersa nel rosa dei ciliegi in fiore, la monografia di Electaarchitettura, dedicata all’architetto giapponese Terunobu Fujimori e curata da J.K. Mauro Pierconti, cattura l’attenzione imponendo un calmo procedere.
La scaletta di legno che con quattro gradini consente di accedere a una scarna pedana, sempre in legno, erta su 4 gambe a mo’ di un tavolo; il tronco d’albero che sostiene la costruzione a base poligonale a una distanza dalla pedana impossibile da colmare senza un ulteriore elemento di collegamento; l’orlo in corteccia(?) di queste parti verticali che ingenerano un ingrandimento della sezione, come un piede, nell’attacco con la terra nuda; la fiabesca copertura dalle falde irregolari da cui spunta un camino, come una estrusione improvvisa verso il cielo, cui corrisponde, nella direzione opposta, un volume che interrompe la superficie piana dell’intradosso del solaio di calpestio; sulle pareti due finestre dalle dimensioni assai diverse: una molto piccola e bassa, l’altra molto grande, attraverso un davanzale, sembra protendersi verso il paesaggio…
L’immagine contiene numerosi dettagli inconsueti per forma, proporzione, posizione e al contempo un equilibrio dell’insieme non riconducibile a prima vista a figure armoniche note, eppure familiare. Un’automatica empatia tra la costruzione sull’albero e la nostra memoria si stabilisce fino a suggerire che quell’equilibrio è sapido di una maturata consapevolezza e che non appartiene all’alveo delle immagini prodotte da accidentali scelte compositive e neanche delle architetture composte come immagine. La singolarità della costruzione sembra tuttavia coglierci impreparati.
Chashitsu Tetsu (camera da tè Tetsu) Hokuto (Yamanashi), Nagasaka- chō, Nakamaru, Kiyoharu Shirakaba Museum, 2005. Veduta esterna. Foto: Akihisa Masuda.
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Tre scritti in successione schiudono la strada alla galleria degli oltre trenta progetti, consentendo di accedere a un universo di riferimenti, ricerche, sperimentazioni e abituando il lettore a scrollarsi di dosso i più radicati convincimenti per ritrovarne l’autentica ragione.
L’accurato saggio di Pierconti ripercorre, a partire dalla significativa tesi di laurea, un ponte in equilibrio tra Ledoux e Archigram, le tappe salienti della carriera del docente di storia dell’architettura presso l’università di Tokio che iniziò a progettare edifici solo dopo i quarant’anni. Ricostruisce il background storico nel quale si è formato, soffermandosi su aspetti non troppo noti agli occidentali ma fondamentali nella costruzione della cifra poetica di Fujimori. In particolare sulla “ricostruzione” dell’identità giapponese nel secondo dopoguerra, trainata da artisti quali Tarō Okamoto e da architetti quali Seiichi Shirai che riportarono in auge la cultura paleolitica Jōmon – offuscata nel tempo a favore della cultura neolitica Yomoi, alla quale facevano riferimento i testi “classici” giapponesi scritti a partire dal XVI secolo, in cui trovano radici le architetture giapponesi più esportata in occidente. Alla preistorica Jōmon, è utile saperlo per comprenderne la portata dirompente e spiegare il senso di familiarità provocato dalle architetture di Fujimori, attinse anche il padre dei manga Shigeru Mizuki e successivamente Hayao Miyazaki.
Ku-an (camera ad angolo retto) Kyōto, Shimogyō-ku, Tominokōji Shijō-Kudaru, Tokushōji-chō, 2002-03. Veduta della camera da tè collocata nell’angolo del muro perimetrale. Foto: Akihisa Masuda.
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La fascinazione e la predilezione per lo spazio che sembra essere generato direttamente dalla forza vitale della natura, sembra guidare gli itinerari di viaggio di Fujimori verso mete inusuali come le grotte di Lascaux o i monoliti di Carnac. Attraverso l’osservazione diretta di monumenti ancestrali, egli costruiva il proprio bagaglio di riferimenti, selezionava i temi d’interesse valutando le più idonee tecniche costruttive per metterli in scena. La costruzione, nel tempo, di un ponte diretto – e il progetto della tesi di laurea ne è una prefigurazione nitida pure se inconsapevole – con le origini dell’architettura, lo rese autonomo nella dialettica tra modernisti ed antimodernisti, e lo condusse ad imporsi, grazie a una tenace coerenza, all’attenzione dei colleghi contemporanei, ben più noti in Italia: Ito, Kuma, Tange.
La lettura, sempre a cura di Pierconti dei taccuini del giapponese, rimarcano l’attitudine alla riflessione continuativa, l’abitudine al controllo contemporaneo delle diverse scale di progettazione, la persistenza di alcuni temi progettuali che riemergono anche a distanza di tempo: attacco al suolo; sospensione di solidi; studio delle misure minime; giustapposizione di corpi dal diverso significato…
Ichiya-tei (camera per una notte) Yugawara (Kanagawa), Ashigarashimo-gun, 2003. Fujimori e il suo committente presso la grande finestra della camera. Foto: Akihisa Masuda.
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Questi temi, se pur accennati da Pierconti, saranno approfonditi nel contributo dello stesso Fujimori che sin dal titolo iniziale, “Prendere le distanze dai 5 punti di Le Corbusier” (solo apparentemente provocatorio), mette in luce la modalità operativa dell’architetto, consistente nel mettere in discussione continuamente modus operandi consolidati.
Fujimori elencherà 12 temi, esemplificativi come dice lui stesso di 27 anni di riflessioni: Forma; Tecnologia; Jomon Kenchiku-dan; L’uso del verde in architettura; Importanza delle sensazioni generate dai materiali grezzi; Lo spazio Cavo; Separazione interno/esterno; Pilastri; La terra; Carbone; La camera da tè; Il cielo e la terra.
L’architetto attraversa questi temi ricorrendo alla sua esperienza personale di storico, architetto, viaggiatore. Predilige il racconto dettagliato all’assioma non eludendo fallimenti e delusioni rispetto ad alcuni risultati. Conduce il lettore a ragionare sul rapporto forma/uso e alla possibilità di discutere canoni convenzionali per ritrovare l’autenticità di quei rapporti; motiva il suo far ricorso, quando possibile, a tecniche non industriali; spiega la predilezione per i materiali naturali; dimostra la capacità di dialogare con scale diverse dell’architettura che trova ragione nella natura dialettica dell’uomo intima e tuttavia parte di un tutto.
Nell’insieme risulta evidente leggendo che “prendere le distanze” non è tanto per Fujimori una questione di principio quanto la necessità di interrogarsi su questioni fondative e di elaborare risposte personali a partire da concrete pratiche di messa in opera dello spazio.
Soratobu dorobune (la nave di fango volante), Chino (Nagano), 2010. La camera da tè nella sua collocazione originaria: lo spazio esterno del museo civico di Chino, la sua città natale. La camera da tè è stata realizzata in occasione della mostra organizzata sulla sua opera nel 2010. Foto: Akihisa Masuda.
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Giunti sulla soglia della galleria di progetti, consapevoli di essere maggiormente attrezzati per comprenderli, si rimane in ogni caso sorpresi dalla varietà dei temi trattati, dalla ricchezza delle soluzioni costruttive adottate, dalle eterogenee specie di spazio messe in scena (cavo, porticato, corte chiusa, corte aperta…).
L’intensità della poesia, anticipata nel racconto dei temi dalle note sulla scelta personale dei materiali sul loro trattamento, spesso a cura del Jomon Kenchiku-dan, e sulla persistente idea di compenetrazione con gli elementi naturali che conferisce un carattere “selvatico” alle costruzioni, convive con una esattezza razionale delle piante in cui una sottesa geometria regolare organizza soluzioni distributive dalle più semplici alle più complesse.
Vatican Chapels, La Biennale di Venezia, Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia, 2018. Veduta dell’esterno della cappella. Foto: Alessandra Chemollo.
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Che si tratti di abitazioni, di edifici espositivi, di spazi per il commercio o dormitori, le generose immagini fotografiche di Akishisa Masuda, i disegni, di taccuino o di cantiere a seconda dei casi, e il testo a commento restituiscono la coerenza del percorso di Fujimori e invitano a una lettura inversa del libro. La Jakisugi house e la Roof house imprimeranno con maggiore rilievo l’idea dello spazio Cavo; Tahasugi-an e Hikusuji han fisseranno con rigore nitido la dialettica propensione verso Cielo e Terra, gli edifici del complesso La collina faranno riflettere sulle potenzialità dell’uso del verde in architettura, la sala mensa del complesso per l’Università di scienze agrarie di Kumamoto sull’attualità dell’ipostilo…
Ci si può sentire più o meno inclini al linguaggio utilizzato da Fujimori. Ma studiare le sue opere è come operare un discernimento sul personale modo di fare e intendere l’architettura. Avere tra le mani questo libro è come poter usufruire della possibilità di trascorrere del tempo in una stanza da tè: sospesi e protesi verso il paesaggio o immersi e protetti dalla Terra.