Consumato l’addio al sé, attendere sobriamente al proprio destino andando incontro all’ignoto: così in queste carte clandestine, prodotte da un tempo libero dagli affanni, da un tempo liberato dal tempo, senza tempo forse o fuor del tempo, fogli dettati da età remote, cronologicamente inconoscibili, momenti poco dabbene sebben diligentemente operosi, propizi anzi senza sforzo con gran sfarzo allo sprecar tempo – e mai tempo fu più ben impiegato! – esistenze tracciate monocramente contro l’impudica policromia del mondo.
In queste stesure lucifughe, cromofobiche euforie del nero, accade dunque improvvisa un’irruzione di luci crude e radenti, un muto frastuono che atterrisce l’oscuro deserto degli intrecci ulteriori; le tenebre arcaiche appaiono allora sparute, indifese contro il raschio di un’unghia, di una lama, di una lacerazione temporanea che le manometta definitivamente, e tali convergono allora in grammatiche di abbagli, di neri estatici regrediti in bianchi vestiti di nero, di rigori prospettici che ammettono adesso, solo adesso, una non contraddittoria e intuibile figurazione.
Avviene che questi monologhi grafici o liturgiche ostinazioni esistenziali rivelino così la loro qualità testimoniale, la loro consistente ricordanza di un universo quatriduano simmetricamente ridestato, reincarnato: ed è l’oceano padano.
Lanche, gore, ristagni, marcite, paludi definitive del fiume Ticino che dilaga in specchiere di risaie taciturne dintorno Pavia, città d’acque; edifici in sommersione, reticoli di prossimo inabissamento, pieghe d’acque al vento, pieghe di vento, voli e astrazioni del vento sono miraggi di pianura e memorie di miraggi padani sul foglio suscitati traverso nebule di cognizioni in foranee gesticolazioni di riflessi e riflessioni.
Questa opera al nero o maniera nera, o incisione oscuramente corusca di bagliori cufici, Prina la descrive nitidamente nel suo arguto coagularsi operativo, forsanche terapeutico: fare il vuoto/nero d’intrecci, intervenire di lama a fessurarne scintillii pareidolici, abrasioni luccicanti, sgorghi di luce, seguitando poi a coltellate a incalzare di minacce taglienti il presagio inevaso della mente coscienza e umore, per farne imprevisti borborigmi di linee.
Del resto è così che avviene per ogni creazione non mediocre, ignota anzitutto a chi l’ha ideata – disegno, scrittura, architettura: dal fondo dell’opaco, dal solido sversamento di mente e incoscienza per azione di sbrano, squarcio, strappo, cruda spogliazione, esfogliazione, svaginazione di sé.
Momenti di laconica felicità.
Naturalmente senza alcun significato.
Premessa
di Vittorio Prina
Cartoncino bianco. Dovrà diventare quasi completamente nero. Inizio la prima stesura di linee parallele, fitte e leggermente curve. Polso sciolto e mano leggera ma decisa; occhi attenti. Le linee devono ricoprire tutto il foglio. Il movimento è quasi ipnotico, una sorta di mantra, e la mente vaga: pensieri sull’idea del disegno si alternano a vaghi pensieri di altra natura. Al termine si avverte già una percezione dinamica del fitto fascio di linee.
Inizio la seconda stesura: le linee devono incrociarsi con attenzione alla prima stesura, altrimenti la texture risulterà in fine rovinata. Altri momenti quasi onirici.
Passo alla terza ponendo attenzione alle due stesure precedenti, immaginandomi l’incrocio di linee che potrà risultare e alla fitta puntinatura di microscopiche zone bianche che faranno vibrare la base del disegno.
A volte segue una quarta stesura.
Uso penne Bic con diverse punte, più o meno ampie, e diverse tipologie di nero a seconda dell’inchiostro. Risulteranno riverberi che, a seconda dell’esposizione alla luce, vireranno dal nero scuro, al nero più grigio, al violetto, al bronzo, all’azzurro, …
Nei Riflessi, ad esempio, la parte superiore a volte assume un colore nero differente da quello della parte inferiore e questo crea differenze di percezione che mi soddisfano molto. È necessario però uno sguardo molto attento.
Anche la pressione delle penne incide il cartoncino e la superficie, osservando con attenzione, vibra.
Lascio asciugare il tutto prima di iniziare con i graffi.
Poi impugno il taglierino. Ho scelto questo strumento dopo tentativi con punte aguzze varie: è l’unico che garantisca la resa a seconda della pressione o dell’uso della punta di piatto o di taglio.
Il disegno quindi risulterà a levare, togliendo cioè l’inchiostro di base sottostante.
Mano molto ferma, tratto deciso e sensibilità nella pressione. Il rischio è di non incidere con sufficiente effetto o di bucare la carta. Leggere differenze di pressione o di precisione del tratto e l’effetto muta completamente. Non c’è possibilità di correggere.
Inizio quindi a graffiare il cartoncino con decisione e il disegno inizia progressivamente a comparire: non ci sono tracce a matita o punti di riferimento per il disegno complessivo che è solo nella mia mente. L’idea di disegno è presente nella mente ma si aggiunge una parte improvvisata man mano che si procede.
Le linee bianche si sommano, si incrociano; a volte son nette ma se ripassate l’incisione è più netta e qualche pezzetto di carta si stacca creando punti luminosi più decisi. Tutto da calibrare. L’effetto è anche tridimensionale e il disegno vibra ancora di più.
Composizione pura ed esercizio mentale di concentrazione assoluta.
Se cambio tipologia di carta e la conseguente finitura e grammatura l’effetto è completamente differente e devo ricalibrare la pressione esercitata con il taglierino. A volte si staccano linguette di carta che determinano effetti differenti e il disegno varia.
La finitura avviene anche con ulteriori passaggi di stesura di linee a inchiostro per compensare alcuni vuoti e ricalibrare il disegno.
Il lavoro riposa per qualche tempo, qualche giorno a volte; poi a mente fredda lo rivedo e decido se è terminato o se è necessario proseguire.
Alcuni tentativi sono effettuati con pennarelli neri, con l’aggiunta di biro colorate o di pennarelli colorati. Il disegno è sempre però effettuato con graffi.
In alcuni esempi ai graffi ho sostituito tratti di penna a inchiostro bianco ma l’effetto è simile salvo alcune differenze marginali; il gesto e l’effetto producono sempre un graffio.
I Graffi sono eseguiti dal 2016 fino a oggi, con lunghe pause tra un ciclo e un altro. Di fatto è sempre stato così sin da quando ero giovane: qualcosa sorge nella mente, inizio a lavorare, eseguo un certo numero di opere e poi le idee scemano, la mente si rifiuta di proseguire e smetto. Proseguo con altro. Tempo dopo spunta ancora la “voglia” di proseguire e riprendo. Non c’è predeterminazione, tutto è lasciato all’inconscio che lavora per me.
Nei Graffi mentre stendo la base a righe nere sovrapposte, se la sensazione non è più ipnotica ma sopraggiunge la noia, il segnale è chiaro: devo smettere.
I Graffi sono perlopiù costituiti da riflessi di arbusti, vegetazione, alberi sull’acqua. Memoria di luoghi di mare oppure della bassa padana: lanche, marcite, il fiume Ticino. Luoghi frequentati da giovane. Alcuni disegni mostrano edifici illuminati, rocche abbarbicate su rocce; sempre paesaggi, comunque. A volte il disegno assume connotazioni più astratte o include altri soggetti.
I paesaggi sono notturni, forse, o comunque oscuri, ombre di pensieri e di memoria. Solcati da linee di pioggia o vento.
L’effetto finale è sempre dinamico, di movimento cristallizzato in una frazione di tempo.
Qual è il significato di questi lavori?
Ricordi, sedimentazioni della memoria, inconscio, trasposizioni oniriche.
Di fatto la parte più evidente e superficiale mi è nota: per la parte più profonda, nascosta e oscura non importa, il tempo che trascorre mi aiuterà meglio a comprenderli. Ripeto: l’inconscio lavora per me.