Potrei andare alla ricerca di una parafrasi più signorile e garbata, ma il significato di ben poco si discosterebbe da questo: Luciano Crespi non è un romantico, e lo stesso vale per il design del non-finito. Di questo non possiamo che rallegrarci, immersi in una realtà culturale che sempre più strizza l’occhio alle copertine seminude delle piattaforme social, un dibattito politico che fa del suo titolo più strillato quello sull’armocromia e un triste globo che troppo velocemente si surriscalda a causa di egoistiche deliberazioni antropocentriche.
A cosa servirebbe, oggi, essere romantici?
Di gran lunga abbiamo ormai smesso di imbatterci in giovani rampolli aristocratici in viaggio lungo la penisola alla ricerca di qualche maestosa rimanenza storica da contemplare, così come superato le parole del filosofo e critico d’arte francese Denis Diderot, che, nel 1767, esaltava quanto “Le rovine suscitassero in me idee grandiose: tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano, mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende”. E, allo stesso modo, di lungo tempo abbiamo oltrepassato le splendide memorie di un’abbazia tra i querceti di Caspar David Friedrich, la commozione dell’artista tra i resti romani di Johann Heinrich Füssli o i sogni e le poesie di Gustav Flaubert tra paesaggi in rovina.
Karan Grover and Associates, Alembic Industrial Heritage and Re-Development, Vadodara, India. Foto: Esha Daftari.
E se l’effetto wow del XVIII secolo non funziona più – e soprattutto non ha più alcun appeal sulle nuove generazioni figlie di una disordinata miscela di sprawl, crisi economica del 2008, crisi climatica ed emergenza pandemica – allora è bene circondarsi di voci sincere e colte come quella di Luciano Crespi. Con una capacità ormai rara di analizzare la situazione contemporanea, accende nel suo libro Design del non-finito i riflettori su tematiche teoriche contemporanee come il neo-nomadismo e la moltiplicazione in tutto il mondo di una nuova specie di spazi non più utilizzabili: gli “avanzi”. Ma più di tutto pone domande aperte ad un pubblico che non è (o non dovrebbe assolutamente essere) solamente quello degli studenti della facoltà di Design degli Interni del Politecnico di Milano, anzi. Domande per tutti, alla ricerca di un riscontro che si faccia carico di affrontare la moltitudine di edifici non più utilizzati presenti nel territorio, considerandone l’eterogeneità per precedente forma, destinazione d’uso e funzione.
Può un approccio multidisciplinare farsi portatore di una nuova estetica degli ambienti, capace di rappresentare le inquietudini e le peculiarità dei modi di abitare contemporanei?
Davidson Rafailidis, Big Space, Little Space, Buffalo, Stati Uniti. Foto: Florian Holzerr.
Un libro che cerca, analizza, riflette, trova e propone risposte. Un libro che guarda agli avanzi come tentativi di sperimentare sul campo possibili forme di sopravvivenza rapide e mutevoli, in costante dialogo con una composizione sociale in continuo cambiamento, tra tecnologie imperanti e mobilità instabili. Un libro che fa del percorso critico il suo principale sentiero costruttivo di consapevolezza, per una progettazione “frugale” che guarda alla demolizione come uno spreco di energie, materiali e storia.
La ricchezza sociale che si trova in Design del non-finito è data, più di tutto, da un’attenzione capillare al dettaglio, sia esso umano, artistico o architettonico. Un dettaglio dimentico della sua bellezza e della potenza della sua fragilità che, una volta riportato alla vita, si mostra con un dirompente messaggio: quello di avere (ancora) un valore. Come per il Kintsugi, Luciano Crespi guarda agli avanzi con la stessa delicatezza e attenzione con cui si ammirano le rughe argentee dei ritratti di Inge Grogard e Ronald Stoops o la raffinatezza artistica delle ceramiche di Ememem che arricchiscono di significato anche gli interstizi più anonimi. Riflessioni e progetti che non hanno più il sapore di una ricerca effimera – o, appunto, romantica – ma che si vedono costretti a scendere in campo come veri protagonisti di una scena contemporanea che non può più farne a meno. Capannoni industriali, uffici, case cantoniere, cascine, chiese sconsacrate, ferrovie, stazioni dismesse, ospedali abbandonati, centrali elettriche non più in funzione, strutture sportive dimenticate e abitazioni obsolete costituiscono un patrimonio architettonico e volumetrico che – per questioni etiche, sociali, culturali e di sostenibilità – non può più vedere nella demolizione-ricostruzione l’unica opzione possibile.
Ex deposito FS, Varese. Foto: Federico Nunziata, Gennaro Merolla.
Per questo motivo il Design del non-finito di Luciano Crespi diventa il piccolo ed esauriente manuale di cui l’epoca contemporanea ha bisogno: riferimenti colti a maestri come Pontormo, Michele De Lucchi, Marco Zanuso, Gaston Bachelard e Ugo La Pietra si mescolano ad un’accurata selezione di progetti documentati per esperienze più rappresentative, distribuzione geografica, varietà di destinazione d’uso e rigore formale, per mostrare la diffusione sempre maggiore di un approccio progettuale dall’inestimabile valore culturale di tutela dell’esistente e di realizzazione di un nuovo che sia figlio di un contenuto e di un pensiero e non di un esclusivo andamento monetario di mercato.
Tim Greatrex, House of Vans London, Londra, Regno Unito. Foto: Nathan Gallagher.