Il volume, a cura della Fondazione Franco Albini, indaga il Metodo del grande maestro dell’architettura italiana (1905-77) restituendo la complessità della sua poetica e individuando in maniera chiara e sintetica cinque princìpi che sono alla base del suo processo culturale e creativo: scomporre l’esistente, cercare l’essenza, ricomporre in forma nuova, verificare il percorso, agire per responsabilità sociale. Un processo che ha portato il lavoro di Albini ad essere messaggero di leggerezza e di poesia, ma anche e soprattutto di responsabilità verso la professione di architetto e verso la società. Ne emerge un modus operandi che oggi risulta quanto mai evidente esaminando il corpus di progetti presenti nell’archivio: oltre ventiduemila disegni che rappresentano un’eredità culturale di straordinaria raffinatezza, ancora in grado di essere fonte d’ispirazione per il futuro e di fornirci gli strumenti per giungere alla chiarezza e alla funzionalità di cui il Maestro era alla continua ricerca.
Sede della Fondazione Franco Albini. Foto: ©Andea Cerabolini.
Albini appare ancor oggi come un raffinato artigiano del progetto: una personalità in grado di gestire ogni scala in cui esprime la propria dimensione poetica, dalle grandi visioni urbane – basti ricordare il progetto urbanistico Milano Verde per la sistemazione della zona Sempione-Fiera, del 1938 – fino alle soluzioni più minute dove i particolari costruttivi garantiscono l’assoluta qualità del prodotto finito: una cura del dettaglio che potrebbe essere efficacemente espressa attraverso le categorie di esattezza e leggerezza magistralmente riassunte nelle Lezioni americane di Italo Calvino. Nelle opere di Albini gli elementi del progetto sono sospesi, eterei, rarefatti, quasi smaterializzati. Sono gli allestimenti, in particolare, a esprimere questa capacità di rendere tutto più leggero con pochi e misurati gesti, dando importanza esclusivamente alle opere d’arte: i progetti per i musei genovesi – la sistemazione delle Gallerie Comunali di Palazzo Bianco (1949-51) e Palazzo Rosso (1952-62) e il Museo del Tesoro di San Lorenzo (1952-56) – hanno segnato una svolta determinante nella storia della museografia italiana, rendendo quel modo di affrontare il tema dell’esporre un paradigma ad oggi insuperato. Le opere d’arte appaiono libere nello spazio, svincolate dalle pareti e spogliate delle cornici, in sostanza liberate da ogni possibile sovrastruttura. Tutto è pensato con linearità e leggerezza al solo scopo di sorreggere l’opera, che diviene assoluta protagonista della visione. Quando Franca Helg – associata professionalmente al maestro fino alla sua scomparsa, nel 1977 – ci riporta l’affermazione di Albini secondo cui “non ci sono oggetti brutti, basta esporli bene”, possiamo comprendere quale straordinaria fiducia egli riponesse nel progetto del sistema espositivo.
Prove di carico sulla riedizione della libreria Veliero di Cassina, parte della collezione “I Maestri”, 2011.
Allo stesso modo un oggetto destinato a contenere libri – la libreria Veliero, realizzata da Poggi in unico prototipo nel 1938-40, oggi nella riedizione presentata da Cassina e Fondazione Franco Albini (2011) – diviene espressione poetica dello slancio, della trasparenza e della capacità di sperimentazione che ormai tutti riconoscono come la cifra del lavoro di Albini.
Indagare, separare, scomporre il progetto nelle sue parti costitutive per giungere all’essenziale, e ricomporlo poi in una nuova versione emendata da ciò che risultava superfluo, accessorio, contingente: questo è in sintesi il Metodo di Franco Albini, e ben lo si comprende osservando la separazione delle parti che è all’origine del progetto dei tre modelli della poltrona Fiorenza (Arflex, 1952 e 1956, Poggi, 1967): in questo caso lo smontaggio e il rimontaggio delle parti identifica ciò che risulta realmente necessario e l’autonomia degli elementi costitutivi esprime a pieno il principio metodologico del progettista. Lo stesso principio che già nel 1943, in occasione del concorso Casa per tutti, aveva portato Albini, insieme a Enea Manfredini, a proporre una serie completa di oggetti d’arredo assemblabili, tra cui un’elegante Poltrona sospesa.
Poltrona Fiorenza, Arflex 1952. Foto: ©Arflex.
I saggi presenti nel volume, in particolare quelli di Marco, Paola e Francesco Albini – ma anche il testo di Elena Albricci, che racconta dell’eredità culturale del maestro – ci mostrano il filo rosso della continuità del pensiero di Albini fino ai giorni nostri; la Fondazione Franco Albini e la Franco Albini Academy, dedicata alla formazione, sono gli strumenti che consentono ancor oggi al pensiero del Maestro di essere attuale e operativo, rivolgendosi con efficacia all’ambito accademico, aziendale e persino sanitario. Mentre la Fondazione ha il compito di divulgare il valore dell’archivio, considerato patrimonio storico nazionale dallo Stato italiano, la Franco Albini Academy ha il fine di formare gli individui attraverso la filosofia di pensiero albiniano, in maniera trasversale e interculturale, applicando il metodo utilizzato nell’ambito della progettualità alla complessità delle vicende umane. Un impegno che si traduce in percorsi interdisciplinari capaci di spaziare dalle visite guidate in città alle aperture al pubblico della Fondazione, dagli eventi culturali alle mostre, dagli spettacoli teatrali al cinema.
Poltrona sospesa per il concorso Casa per tutti, 1943 (con Enea Manfredini). Foto: ©Alberto Ferrero.
In uno dei saggi all’interno del libro, Fabio Ilacqua, docente di Regia e linguaggio cinematografico, interpreta in modo originale i cinque punti del Metodo albiniano – scomporre, cercare l’essenza, ricomporre, verificare, agire per responsabilità sociale – come categorie essenziali che ricorrono anche nell’ambito della cinematografia. Sia l’architetto che il regista tentano di “infondere anima in qualcosa che potrebbe accontentarsi di mettere un tetto sopra le nostre vite o intrattenerle al cinema o in TV”. È a questo punto che entrano in gioco la volontà e la necessità, tanto da parte dell’architetto quanto da parte del regista, di adottare un metodo. Scomporre un progetto consente all’architetto di individuarne le parti costitutive, e scomporre una scena costringe il regista a vedere nel profondo per cercarne l’essenza – il punctum direbbe Roland Barthes parlando della fotografia – cioè per rintracciare quei dettagli manifesti o inconsci che costituiscono dei veri e propri dispositivi scenici in grado di generare un’epifania di sensazioni e di emozioni nello spettatore. Successivamente, ricomporre corrisponde alla fase del montaggio, che va inteso “come un atto trasformativo, non restaurativo”, volto a conferire nuovo senso alla narrazione cinematografica. Verificare e agire per responsabilità sociale significa infine entrare in rapporto con gli altri, con il pubblico: da una parte comprendendo se ciò che si è prodotto comunica ciò che si voleva trasmettere, dall’altra richiamandoci alla consapevolezza e alla responsabilità delle nostre scelte espressive. Una responsabilità che ha informato l’intero percorso umano e professionale di Franco Albini.