“L’incessante processo di rivoluzione tecnologica che ha caratterizzato l’architettura mondiale durante gli ultimi decenni, ha fatto sì che l’attenzione venisse dirottata su certi aspetti legati alla tecnologia e alla sua applicazione pratica, in constante evoluzione e cambiamento. A tale proposito, Ernesto Nathan Rogers scriveva che ‘concepire l’architettura come pura tecnica, le cui finalità si esauriscono nella pratica, è come credere che l’atto d’amore abbia il solo scopo di riprodurre la specie, impoverendo di tutto quell’apporto di sentimenti o di fisicità che ce lo rendono necessario nell’adempimento completo della nostra umanità’”.
Tommaso Brighenti, Pedagogie architettoniche, scuole, didattica, progetto
Beatriz Colomina, nota per la mostra Playboy Architecture: 1953-1979, ha realizzato, dal 2010 una ricerca collettiva dal nome Radical pedagogies. Lista di esperimenti “intensi e di breve durata” nell’educazione architettonica, soprattutto nella decade dei ’60 del Novecento, condotto all’interno del programma di dottorato in teoria dell’architettura di Princeton.
Casi-studio di pratiche didattiche “radicali” nel campo architettonico che hanno anticipato, secondo i coordinatori di tale indagine, pratiche odierne dell’insegnamento e mestiere. Questa investigazione — compilazione? — è stata portata avanti grazie al contributo di storici, teorici e dottorandi tramite seminari, interviste, ricerche d’archivio, indagini collaborative, ecc.
E nutrita grazie a chiamate a contributi, interventi a congressi e all’elaborazione di mostre per festival, biennali e triennali tra Lisbona, Venezia e Varsavia… Con intelligenza comunicativa, Radical pedagogies ha centralizzato questi studi ed eventi in un sito, radical-pedagogies.com, che ha attirato l’attenzione di ricercatori da tutto il mondo. Nello stesso periodo un’altra indagine su questioni riguardanti esperienze pedagogiche è portato avanti da Tommaso Brighenti presso il Politecnico di Milano, dove, nel 2015, consegna la tesi di dottorato L’insegnamento della composizione architettonica.
Foto: ©MIT Press.
Tre anni dopo Brighenti pubblica Pedagogie architettoniche, scuole, didattica, progetto nel quale analizza esperienze pedagogiche evidenziandone propositi ed esiti. Ordinando – e non elencando – con distanza critica progetti culturali associati a contesti temporali tecno-scientifici ed economici: la Scuola di Valparaiso, la Cooper Union, la AA di Londra e, in “Compositive come chiave d’interpretazione”, due esercizi d’insegnamento: Guido Canella e Luigi Semerani.
Brighenti affronta le nozioni ormai fuori moda quali il razionalismo e Scuola, togliendo questo e altri termini dai limiti nei quali la contemporaneità bum-bum li ha rinchiusi. Tenta — spiega Domenico Chizzoniti — di “definire le ragioni di una scuola di architettura, la sua identità, il percorso, il suo carattere, attraverso una esplorazione in presa diretta dell’elemento che meglio riesce a connotarla: il progetto di architettura”. L’autore riesce nell’impresa, avendo chiare alcune precise cognizioni.
E, questo, per motivi generazionali, avendo avuto, lui come me, la fortuna di vivere la Facoltà d’architettura della Bovisa. Pedagogie architettoniche cerca, attraverso questi casi, ciò che si cela dietro la trasmissibilità dell’architettura in quanto scienza: interrogativo ormai blasfemo. Gli oggetti dell’approfondimento, rappresentativi di tendenze, sono scelti affinché l’autore possa fare una proposta: che sia una “chimica tra individui”, tra maestri e alunni senza preconcetti intellettuali a determinare i grandi momenti formativi dell’architettura.
L’indagine storica diventa qui medio di sintesi, chiarimento, proposta, tendenza. Nel capitolo “Idea di architettura, scuole di architettura” diventa chiaro quanto si celi dietro il proposito di Brighenti. Iscritto in tensioni teoriche e dibattiti tipici di una certa intellighenzia italiana, ormai in via di appiattimento, o, meglio, di adeguamento liberal.
Paesaggio, quello italiano, in cui la teoria rimane propulsore di vivacità e produzione intellettuale grazie soprattutto alle università. Eredità di quei “maestri della scuola italiana che hanno inteso l’architettura non solo come rappresentazione, ma come volontà di trasformazione che contempla una concezione del mondo e attraverso la scuola […] in grado di trasmettere ‘una base conoscitiva su cui sviluppare con autonomia e rigore l’espressione’.”
Foto: ©MIT Press.
Poco dopo l’uscita del libro di Brighenti, nel maggio 2022, il sito del gruppo di ricerca Radical pedagogies diretto da Colomina, viene reindirizzato alla piattaforma di vendita di un volume dallo stesso titolo. Contrariamente al saggio precedente, Pedagogie radicali contiene nelle sue 416 pagine, le più variegate esperienze. Anche qui in quest’ultimo si parla di Cile. Nello specifico, della riforma dell’Università del Cile dove gli studenti proposero, a partire dal 1933, un insegnamento vicino alla realtà sociale e ai bisogni della popolazione, guidati dall’ungherese Tibor Weiner.
Weiner, spiega Daniel Talesnik, organizza cicli in blocchi: filosofia, sociologia, tecnica e plastica. Proposta che istituzionalizza l’analisi sistematica delle relazioni sociali, portando con sé mutamento, coscienza sociale, scientificità, consapevolezza; unendo laboratori e teoria e creando una generazione di architetti impegnati.
I case studies riguardano spesso il dialogo tra istruzione, esplorazione trans-disciplinare, creativa, poetica e artistica; la cultura materiale e concreta del mestiere e della tecnica (confini tra apprendimento, lavoro e vita); l’orizzontalità docenti — allievi e la resistenza alle autorità universitarie (proteste, occupazioni e autogestioni, voglia di trasformazione, democrazia, utopie…); relazione tra Modernità e istituzione, concezioni quali avanguardia, forma, vissuto corporeo; la città quale insieme spaziale pubblico e collettivo; gli interrogativi sulla natura della forma (con le connesse diatribe sull’autonomia), il rifiuto — o il legame — con le analisi sociologiche; viaggi tra nazioni quali fughe; mito e storia; l’edificio-istruzione quale fonte d’apprendimento (Scuole nazionali d’arte dell’Avana socialista), ecc. Al punto dal far scomparire la centralità del progetto d’architettura quale elemento ontogenetico dell’ammaestramento di questa arte costruttiva.
Foto: ©MIT Press.
La presenza ricorrente, tale una potenza dolce, che condisce molti di questi tentativi formativi, è quella dell’Italia : architetti (Bo Bardi, Canella, De Carlo, Giorgini, Grassi, Gregotti, Munari, Nervi, Peressutti, Portoghesi, Quaroni, Raggi, Sottsass, Superstudio, Tafuri, Zanuso, Zevi…); luoghi (Arezzo, Biennale, IUAV, Politecnico di Milano e di Torino, Triennale…), tematiche o influenze (Tendenza, la mostra The new Italian domestic landscape…).
Presso l’Università Nazionale di Tucumán (Argentina), nel 1947, Jorge Vivanco invitava un insieme d’insegnanti quali Ernesto Nathan Rogers, Cino Calcaprina, Luigi Piccinato, Enrico Tedeschi, Guido Oberti, che rese Tucuman tra le più avanzate faculdades di quei decenni.
Spiega Horacio Torrent: “il suo orientamento è stato tracciato attorno alle idee di un razionalismo adeguato alle condizioni locali, propugnate idee di organicismo apportate da professori italiani, alcuni dei quali membri fondatori dell’Associazione per l’Architettura Organica”. O, ancora, l’apporto di Vittorio Garatti e Roberto Gottardi per la Escuela de Artes de la Havana…
Perché una tale preponderanza italica? Ancora una volta, ciò non ci è dato sapere: il tomo compila sintesi ma non sintetizza ipotesi. Radical pedagogies è stato presentato al CIVA di Ixelles, centro che vive una rinnovata epifania di eventi e idee grazie a Silvia Franceschini, curatrice di architettura contemporanea presso l’istituzione e che ha partecipato, anch’essa, alla pubblicazione di questa monografia con uno splendido “Survival as Creative Practice for Self-learning” (con Valerio Gorgonuovo, pp. 80-87).
Foto: ©CIVA.
Alla presentazione erano presenti gli editori (Colomina, Evangelos Kotsioris e Anna-Maria Meister), assieme a contributori come Hilde Heynen, Vanessa Grossman, Ivan Lopez Munuera, Dirk van Heuvel e Mark Wigley. Ognuno ha esposto una ricerca: dai mitologici Utopia e/o rivoluzione di Torino (aprile 1969) ai Global tools (1973-1975), presentati da Franceschini.
Altri erano assimilabili a esperienze conformiste dalle formalità estreme, come “Pedagogia parassitaria: la macchina didattica”, nella quale Wigley presenta gli esperimenti di Buckminster Fuller nelle università statunitensi. Si passa poi per radicalismi d’identità (più che di magistero), con una presentazione di Ivan Lopez Munuera sulle feste non autorizzate degli universitari — borghesi — omosessuali dell’università — di élite — Columbia, negli 80s di Reagan.
Foto: ©CIVA.
Foto: ©CIVA.
Durante la discussione tra intervenenti e pubblico, Colomina pone una domanda: “perché vi sono state esperienze così radicali in quegli anni? E perché, oggi, non si arriva a tanto radicalismo?” Un tale sforzo editoriale e lunghe ricerche non avrebbero dovuto dar risposte a queste e altre domande? Faccio notare a Colomina come nella veterolingua utilizzata nel libro e durante le presentazioni della serata, ma in modo generale nella storiografia attuale, una risposta parziale a questo interrogativo c’è. In mezzo alla lista dei vocaboli dell’odierno polit-corretto (gender, race, sex, sexuality, identity, body, per citarne alcuni) ve ne è uno sistematicamente evitato / censurato: social class.
Ecco, “classe sociale” non sarebbe mancato in un discorso degli anni ’60-’70. Concetto oggi omesso dalla neolingua, e che, in un contesto di osservazione sugli esperimenti pedagogici “radicali”, delle più estreme tra le decadi, è assenza di cui si accorge. La presa di consapevolezza delle classi oppresse e il discernimento collettivo di tale oppressione, in quel periodo, fu il trampolino da cui presero slancio i radicalismi, siano essi politici, formali, epistemologici, linguistici, corporei, pedagogici, sessuali, ecc.
Sottolineo altresì come si sia, oggi, sommersi da radicalità. La maggior parte delle scuole in alto alle scalette delle classifiche si riconoscono in pedagogie “radicali” o quanto meno non accademiche. Ma di che radicalismo parliamo?
Foto: ©Gregorio Carboni Maestri.
Il radicalism odierno, quello che ho visto nei laboratori della GSAPP, al SCI Arc, o quello di maniera che è ricercato, a volte timidamente, dai politecnici svizzeri a quelli olandesi, passando da Singapore o dalle grandi scuole viennesi, sommerge la progettazione con incessanti ossessioni modaiole, tra decostruzioni, parametrico, empirismi, postmodernismi. E, riprendendo le parole dell’ex preside di Princeton Alejandro Zaera-Polo nel suo j’accuse, di sempre più divisivi identitarismi e approssimatismi. Le discipline spazio-compositive vengono sempre più allontanate dal loro carattere di mestiere civile, umanista, tettonico, storicamente stratificato; di disciplina culturale, urbana e tipologica.
Un radicalismo che non impedisce – anzi, favorisce – la sterilizzazione della componente ideologica di questa istruzione. Schools of architecture che appiattiscono tensioni intellettuali, censurando il conflitto teorico e inneggiando alla pigrizia culturale. Il tutto, sommerso da una cappa di consenso al sistema liberale e speculativo, nel quale il pensiero critico viene annebbiato dalle leggerezze formali.
Un involucro che esprime una costante ansia dell’oggi, reiterato all’infinito: espressione paradossale di una visione del mondo senza domani, Storia, progettazione, collettivo. Senza civitas. E le cui basi filosofiche profonde, qualora ve ne siano, non superano l’economicismo, un costante adeguamento all’immutabile sistema di caste sociali.
Una rassegnazione frizzante, colorata, decostruita, una post-storicità rivestita da abiti sempre nuovi. Fenomeno, questo, che riguarda anche la storiografia e l’apparato teorico, un certo tipo di ricerca scientifica, che sta incancrenendo via via i centri di ricerca, influenzati dal mondino dei congressi, convegni e pubblicazioni peer-review anglosassoni.
Una storiografia sempre più appiattita agli studi culturali e al post-strutturalismo: lente sfocata sotto la quale guardare il reale senza vederlo del tutto. In questo contesto il registro della storia si trasforma sempre più, per ora in particolar modo mondo anglosassone, in enumerazione affascinata d’immagini sconnesse: collettanee alla Instagram®. L’hipster della storiografia enumera e accumula compulsivamente, colleziona “perle rare”; feticizza eventi-oggetti da mercatino delle pulci del passato da esporre in una wunderkammer archivistica. Gettandoci in una squisita e intrattenente impossibilità d’intendimento dei fatti.
Questo spiega la fascinazione feticista per archivi come il CCA e i suoi documenti, visti come manufatti fini a sé stessi. O di libri-oggetto quali il bel Clip, Stamp, Fold della stessa Colomina: studi composti da elenchi monotematici. L’odierna storiografia si prefigge sempre meno a essere sistema teorico complessivo del moto delle collettività, chiarificato attraverso l’utilizzo di attrezzi particolari o fondamenti di supporto, tra i quali antecede la nozione di conformazione delle cose materiali. Non si ricerca più una proiezione, totalizzante, connessa e in movimento, degli andamenti collettivi: la si aborra.
In Radical pedagogies i tanti esempli di progetti pedagogici “radicali” non entrano in una linearità crono-storico-contestuale o in una dialettica tra “totalità e selezione”, bensì in “fagottini tematici”: “Counter hegemonies”, “Alternative modernizations”, “City as site”, “The value of form”, “Beyond the classroom”, “Schooled by the building”…
In tal senso, se si leggono bellissimi contributi di autori eccellenti quali Alessandra Ponte (“Molecular revolution in aula magna”), Marta Caldeira (“Contraplan”), Federica Vannucchi (“In search of a new visual vocabulary”), Joaquim Moreno (“Revolutionary learning in the neighborhood”) è interessante evidenziare l’evitamento nei titoli dell’esplicitazione dell’oggetto studiato, trasformando ogni esperienza didattica in un casus fenomenologico.
Foto: ©CIVA.
Foto: ©CIVA.
Per quanto affascinante e necessario, non è l’accumulo di casi-studio a permettere una risposta al quesito di Colomina. E non sono le sperimentazioni didattiche ad essere state radicali (il termine non significa alcunché) è bensì la lotta tra ceti in contrapposizione, nel Secolo breve, ad essere stato radicale. Decadi in cui studenti, operaie e operai scendevano in massa nelle strade delle città con progetti rivoluzionari.
E l’Italia era uno degli epicentri d’influenza nel campo architettonico, tra teorie, riviste, case editrici, pubblicazioni, progetti, movimenti alternativi poiché era anche luogo dell’avanguardia politica più avanzata in Occidente, tra scioperi nelle fabbriche, occupazioni, effervescenza intellettuale, partecipazione partitica e tensione nei dibattiti. Dalle riviste ai bar.
Non è dunque la radicalità delle pedagogie che andava studiata (o meglio, collezionata), bensì la nostra professione e la sua didattica “nel contesto” della drasticità di quegli anni, di contaminazioni e dialoghi. Riunire tutti gli album di figurine di Panini sui campionati del mondo di calcio non è sufficiente per costruire una storiografia di tale sport.
Nella sua solitudine, e usando appena alcuni casi-studio sconnessi, Brighenti riesce a raggiungere la sintesi e lo spessore analitico laddove il colossale lavoro-collettivo di Colomina non arriva, perché Brighenti è figlio di una Scuola, e di un’Italia: una storia che in noi, tutto sommato, vive ancora.
Alla presentazione del libro, in un auditorium pieno di colleghi, non vi era neanche uno studente.