Le opere di Arne Jacobsen (Copenaghen 1902-1971), costituiscono le stazioni architettoniche di un viaggio, cadenzato nel tempo e nello spazio cui Renato Capozzi ci invita a partecipare.
Una silenziosa Danimarca suggerisce le puntuali annotazioni che inaugurano il taccuino di viaggio dell’autore, tracciando le linee di una ricerca confermate e precisate dal tempo; annotazioni che costituiranno la chiave di lettura per lo studio delle stazioni successive; griglia che, misurando le mutazioni tra le diverse opere, lascia spazio a sempre maggiori chiarificazioni sulla poetica e sulla teoria del maestro danese.
Collimano in questo saggio la maturazione paziente dell’esperienza professionale di Jacobsen con la definizione della ricerca dell’autore, mirando entrambe a una architettura della “razionalità e intelligibilità delle forme e dei costrutti formali, del rapporto stringente con la costruzione, della sintassi degli elementi, della perfezione del dettaglio, della ricerca di un apparato linguistico scarno, diafano, impersonale, della fiducia nella possibilità che l’architettura, intesa come arte civile, determini la condizione urbana più che esserne determinata”(1).
Istanze raccolte nella parola chiave esattezza che l’autore sceglie a connotare l’opera di Jacobsen “proprio a significare il legame e il difficile equilibrio tra astrazione/espressione e costruzione/carattere nelle sue architetture”(2).

Arne Jacobsen, SAS Royal Hotel, Copenaghen, 1956-60. Foto di Manuela Antoniciello.

Le cristalline procedure compositive, governate da severi sistemi proporzionali da un lato; l’attenzione al dettaglio costruttivo che si fa linguaggio, nelle architetture così come nel design di oggetti di arredo, raccontano di una duplicità insita nella ricerca dell’esattezza che, proprio come nella ricerca calviniana, “si biforca in due direzioni. Da una parte la riduzione degli avvenimenti contingenti a schemi astratti con cui si possano compiere operazioni e dimostrare teoremi; dall’altra parte lo sforzo delle parole per render conto con la maggior precisione possibile dell’aspetto sensibile delle cose”(3).
Le architetture di Arne Jacobsen sembrano risolutrici di “Un problema che domina la storia della filosofia da Parmenide a Descartes a Kant: il rapporto tra l’idea di infinito come spazio assoluto e tempo assoluto, e la nostra cognizione empirica dello spazio e del tempo”(4).
Il maestro danese interpreta l’urgenza di un nuovo umanesimo, condivisa con i colleghi dell’altro movimento moderno(5), attraverso sapienti concatenazioni architettoniche che mettono in sequenza specie di spazi differenti e precisamente connotati – è il caso della Biblioteca di Rødrove (1961-69) e del quasi inedito progetto per il Parlamento di Islamabad (1962) – e introducendo elementi di misura che riportano le esatte proporzioni del Tutto alla scala umana: gli elementi di connessione verticale che appesi a filiformi cavi abitano gli spazi assoluti misurandone le altezze, Banca di Danimarca (1966-78) o intubati in cilindri trasparenti servono gli spazi principali, Sede della Jesperen (1953).

Arne Jacobsen, progetto per il Palazzo del parlamento di Islamabad, Pakistan, 1962. Disegno di Claudia Sansò.

L’architettura è servizio inteso non nella banale risoluzione del tema funzionale ma della possibilità di permettere alle aspirazioni umane di inverarsi a ogni grado. Da questo punto di vista è evidente il riferimento a Mies van der Rohe nella ostinata declinazione dello spazio d’incontro, aula, ma anche una matura assimilazione degli archetipi classici che avvicinano Jacobsen ad alcune espressioni del razionalismo mediterraneo: la messa in scena di basamenti e dei ripari e soprattutto di corti, patii, pergolati o come nel caso esemplare dei velari reinventati in mattoni pieni per il St. Chaterine’s & Merton college a Oxford, denota una spiccata attenzione per il tema della luce e della sua capacità di rendere gli spazi abitabili o monumentali; una sapiente concezione del dettaglio costruttivo che divenendo linguaggio si avvicina, con gentilezza, all’uomo.

Arne Jacobsen, Banca nazionale di Danimarca, Copenaghen, 1966-78. Foto di Manuela Antoniciello.

Renato Capozzi ci porge la dualità dell’opera di Jacobsen, in cui convivono l’estensione dell’infinito e la densità dell’infinitesimo, utilizzando un doppio registro narrativo: una descrizione dettagliata, accompagnata da fotografie, e il ridisegno delle opere.
Se attraverso la prima si ripercorre il processo di conoscenza dell’autore che elenca con accuratezza i materiali utilizzati, identifica i sistemi costruttivi, spiega i rapporti delle opere con il contesto, interroga dettagli mai banali svelandone le ragioni – come la linea nera che rompe l’uniformità della facciata del Royal Hotel SAS a Copenaghen –, e trovano posto elementi di arredo a significare la continua presenza della dimensione umana; attraverso i secondi è possibile rintracciare le assolute proporzioni tra le parti, comprendere la successione dei diversi spazi.
Le ragioni della poetica di Jacobsen, investigate attraverso questo doppio registro, si riveleranno irrinunciabili per chiunque avverta una neonata urgenza di umanesimo: le descrizioni invitano a reiterare l’esperienza del viaggio e i disegni ad ulteriori ri-disegni.
Da questo punto di vista, davvero l’opera di Jacobsen si pone, come sostiene Capozzi, ad “antemurale al disagio di perdita di forma del vita”, e la condivisione del taccuino aperto appare un dono prezioso.

Note
1. Capozzi, L’esattezza di Jacobsen, LetteraVentidue, Siracusa, 2017, pag. 11.
2. Ibidem, pag. 15.
3. I. Calvino, Esattezza in Lezioni Americane, pp. 73-74, Mondadori, Milano, 2016 (1993).
4. Ibidem, pag. 65.
5. Cfr. K. Frampton, L’altro Movimento Moderno, a cura di Ludovica Molo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano), 2015.