Con mia grande sorpresa e stupore, nell’abbozzare le prime note per la stesura di questo testo un fulminante refuso ha trasformato a schermo periurbano in perturbano. Mi sono chiesto allora se non si trattasse più propriamente di un lapsus, qualcosa che indirizzava al freudiano unheimlich: il periurbano come (luogo) perturbante, non risolto in un ordinamento plausibile, riconoscibile e infine accettabile. Per come mi appare da profano, il periurbano non costituisce la versione territoriale dell’uomo senza qualità di Robert Musil; non contiene (almeno nella sua apparenza) infinite possibilità inespresse.
Si offre piuttosto come un paesaggio temporaneo, instabile (e per questo particolarmente adatto a essere interrogato con la fotografia), del quale solo una forte volontà progettuale (e quindi politica) può intendere le potenzialità. Alla crisi di riconoscibilità territoriale, magari identitaria, ha corrisposto negli anni una ridefinizione dei modi e delle possibilità stesse della sua restituzione fotografica, tra documentaria e narrativa, essendo che anche in questo ambito la riflessione sui margini, sugli spazi in divenire e magari di incerta definizione ne ha mostrato la problematica inconsistenza, così come è accaduto per l’idea stessa di “paesaggio” inteso come genere codificato della rappresentazione dei luoghi, di una realtà che a sua volta oggi molti neuroscienziati considerano una semplice interfaccia.

È su questa (evanescente) linea di faglia che si è preferibilmente esercitata una consistente parte della più influente fotografia contemporanea, a partire almeno dalla mostra alla George Eastman House di Rochester del 1975 New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape, che vincolava soggetto e oggetto della rappresentazione alla necessità di nuove modalità descrittive; quelle che con termine quanto mai convenzionale (e ambiguo) si qualificano come “documentarie”. Quelle in cui, come ebbe a scrivere nel 1980 Lewis Baltz, uno dei protagonisti di quella mostra e della cultura fotografica internazionale degli anni a venire, “idealmente il fotografo dovrebbe essere invisibile e il mezzo trasparente; (…) io voglio che il mio lavoro sia neutro, diretto e libero da ogni intenzione estetica o ideologica affinché le mie fotografie possano essere viste come delle dichiarazioni fattuali sul loro soggetto piuttosto che come espressioni di ciò che io ne penso”.
Questa dichiarazione più ideologica che ideale si riappropriava della mitica neutralità oggettiva della fotografia, di solida tradizione ottocentesca, col duplice scopo di pervenire a una pratica non giudicante e di evitare i trabocchetti, anche etici, della spettacolarizzazione del mondo. Manifestava la consapevolezza della condizione di crisi nella quale la cultura occidentale si è venuta a trovare, ben sintetizzata (per continuare a muoverci nel territorio culturale di cui qui ci occupiamo) dalla riflessione di un altro grande ‘nuovo topografo’ come Robert Adams, per il quale “i luoghi incontaminati ci intristiscono fondamentalmente perché non sono più veri” (1981).

Afragola, 2019. Foto: Mario Ferrara.

In questo territorio dell’immagine (ma non immaginario) si è mossa anche molta fotografia italiana degli ultimi decenni, dall’ormai mitico Viaggio in Italia curato nel 1984 da Luigi Ghirri, una sezione del quale era propriamente intitolata “Margini”, alla ormai pluridecennale esperienza di Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea (dal 2000), sino a più recenti progetti quali Padania Classics (dal 2010) e Incompiuto Siciliano (2018). Se ancora alla fine degli anni Sessanta del Novecento urbanisti e storici dell’arte come Pier Luigi Cervellati e Andrea Emiliani potevano affidarsi e quasi consegnarsi alle virtù conoscitive delle campagne fotografiche di Paolo Monti, nella certezza (pur critica) delle possibilità euristiche legate alla lucida sistematicità del rilevamento, poi non è più stato così: dalla francese DATAR (1983-1989) all’esperienza lombarda di Archivio dello spazio (1987-1997) è il luogo a farsi riconoscere e quasi piegarsi allo sguardo del fotografo, così manifestando (a volte implicitamente) una crisi sostanziale delle potenzialità strumentali (descrittive, progettuali) del mezzo fotografico. Una crisi che troppe volte si è risolta nell’affermazione quasi prevaricante del ruolo autoriale, delle connotazioni (poetiche, stilistiche) di quello specifico sguardo. Il luogo, lo spazio, il territorio come pretesti.

Rispetto allo scenario qui schematicamente delineato la posizione di Mario Ferrara si rivela intermedia: certo il suo è un modo di guardare consapevole e colto, ben inserito nella cultura fotografica degli ultimi decenni, ma tuttavia ancora fiducioso nelle possibilità di rilevamento (e magari di svelamento) offerte dalla fotografia; e in questo certo gioca un ruolo importante il suo rapporto fattivo, operativo, con gli urbanisti. Il suo racconto dei luoghi adotta varie strategie, solo apparentemente minimali, che merita sottolineare. La scelta del colore intanto, che elimina l’astrazione come la drammatizzazione delle riprese in bianco e nero che caratterizzavano i primi suoi lavori, e accanto a questa – indispensabile a definire il tono narrativo – l’attesa di luci diffuse, mattutine e invernali, che favoriscono una leggibilità massima del soggetto e contemporaneamente cancellano ogni possibile connotazione di mediterraneità, di colore locale diremmo.
L’andamento è orchestrato per piccoli nuclei seriali costituiti da variazioni dell’inquadratura dello stesso soggetto, che ribadiscono la precisa natura di immagine di ciò che ci viene mostrato. Se la realtà è la stessa ogni fotografia che ce la restituisce è singolarmente diversa, ma accade anche (con operazione inversa) che riprese di differenti luoghi ne sottolineino la ricorrenza, la ripetitività degli elementi caratterizzanti. Il punto di vista (e di fuga) è prevalentemente frontale, posto sempre a una certa distanza dal soggetto principale; di una descrittività quasi didascalica che rifiuta ogni effetto accattivante.

Marcianise, 2019. Foto: Mario Ferrara.

Questa strategia della visione è forse necessaria a mostrare senza indicare o forse, semplicemente, suggerisce che il soggetto principale non esiste: non c’è qualcosa che valga più di altro, non c’è gerarchia che tenga e se mai qualcosa si presenta intenzionalmente come cattedrale, questa si colloca ancora e sempre, proverbialmente, in un deserto che la fagocita, a sua volta segnato da un “incolto” che sovente compare nel primo piano in queste fotografie, quasi con funzione metaforica di rappresentazione del legame tra coltura e cultura. Scomparsa ormai la figura retorica del riguardante, che segnava il suo primo lavoro (2007) dedicato a Ponticelli (un luogo che qui ritorna indicando l’avvio del nuovo percorso e il legame con la sua biografia professionale e culturale), queste fotografie sono tanto vuote di presenze umane quanto dense di segni a scala diversa, dai manufatti ai paesaggi che danno forma visibile alla condizione dei luoghi; esito e indizio del tempo storico. Tra questi emergono con grande evidenza gli elementi strutturali della linea TAV ancora isolati, possibili rovine del presente che Mario trasforma in stele e masse scultoree, rivelando una qualche traccia di nostalgia per la funzione connotativa delle presenze monumentali. Necessaria.