Vista dello spazio espositivo allestito. Foto di Carlotta Formenti.
Nel testo che segue non si troverà alcuna descrizione dei materiali in esposizione e alcuna contestualizzazione storica della figura di Aldo Rossi. Basti dire che qualsiasi tentativo di tradurre in parole quanto si percepisce esclusivamente con lo sguardo è riduttivo e nel caso specifico non rende merito alla bellezza delle opere, che rimane comunque indipendente da una loro comprensione.
Una nota a parte per i documenti e i carteggi, che, comprensibilissimi, appassioneranno quanti già sono appassionati. Si aggiunge, infine, che la mostra ai Tolentini è fatta in occasione dei vent’anni dalla scomparsa di Aldo Rossi: un ricordo e una commemorazione, dunque, il cui senso dovrebbe essere quello di esprimere quanto rimane di vivo e operante del lascito di una persona e, contestualmente, di un momento nella storia.
La mostra Aldo Rossi e la cornice veneziana assume le forme quantificabili di un allestimento consistente di: 50 cavi in acciaio zincato con relativi ganci e attacchi in metallo; un numero imprecisato e abbondante di puntine metalliche; 6 lastre di cristallo a coprire relative teche da 120 x 100 cm l’una, per un totale di 7,2 mq di superficie interamente ricoperta da fotografie, scritti, appunti, pubblicazioni, libri, dispense, carteggi, schizzi e lettere (“succulenta” quella di Manfredo Tafuri); 2 modelli lignei; 2 riproduzioni video; 30 fotografie di Luigi Ghirri; la sfera sommitale del Teatro del Mondo, in rame e ferro.
E ancora, i disegni appesi alle pareti, per i quali si riporta solo un elenco delle tecniche impiegate per la loro realizzazione, cui si affida il compito di allettare l’immaginazione di quanti leggono: acquerello, china, collage su copia; pastello e pennarello su carta; china e acquerello su cartoncino; china e acquerello su carta; china e pastelli su copia; inchiostro e matite colorate su carta; matita e pastelli su copia; china su carta; incisione (autografata); olio su tavola; penna e pennarello su carta; pastelli su copia eliografica; caffè, tempera, acquerelli su copia eliografica; matita su carta da schizzo; incisione su cartoncino; collage di fotocopie a colori.
Alcuni “Quaderni azzurri” all’interno di una teca espositiva. Foto di Carlotta Formenti.
Con questo equipaggiamento, la mostra veneziana ha trasfigurato quella del rettorato in una galleria d’arte allestita con pezzi − molti originali − disposti secondo un ritmo disteso, che lascia il tempo di soffermarsi e riconoscere una persona, decifrare una calligrafia, scavare nelle stratificazioni del colore. Una mostra che racconta “il profondo e ambiguo legame tra l’architetto milanese e questa città (…) In mostra quindi, i progetti realizzati o pensati per Venezia: allestimenti per la Biennale, Cannaregio ovest, Giudecca, Sacca Fisola, Festa della Sensa, il Palazzo del Cinema al Lido, il Teatro la Fenice”.
Di fatto, quella che si svolge ai Tolentini è un’incursione in una autobiografia, con quasi niente di scientifico: c’è sì un che di archeologico nel tentativo di ricostruire la natura e il senso degli oggetti raccolti, pietre e fossili di una vita lasciata in sospeso; ma il piacere di chi guarda è più affine al gusto per le reliquie degli uomini. Possedere, ammirare e godere di oggetti e momenti privati, sapendoli autentici, è proprio del voyeur o del collezionista, cui si somma, nella cornice veneziana, una fascinazione più propriamente artistica, dovuta alla qualità dei materiali esposti.
L’esperienza estetica e il coinvolgimento sentimentale sono le cifre stilistiche della mostra, la cui cura nell’allestimento partecipa dell’estrema delicatezza di un “apparecchio alla morte” e sembra chiudersi nel riserbo e nel silenzio: rarissimi i pannelli esplicativi, che si compongono quasi esclusivamente di citazioni dallo stesso Aldo Rossi; le didascalie dei materiali sono erose fino alle ossa dell’identificazione: un titolo, un nome, una data, il riferimento a una collezione; i disegni appesi alle pareti sono significativamente poco architettonici.
La cornice veneziana non intende aggiungere alcuna spiegazione a quella già implicita nei materiali in esposizione, carichi invece dei nessi con una realtà che resta per la maggior parte inconoscibile, oltre, appunto, quella cornice.
Nonostante il raccogliere oggetti eterogenei e coerenti rispetto alla geografia che li accomuna sia già un tema – e nonostante sia stato ben svolto – tuttavia l’incapacità di commentarli e il compiacimento nel mostrarli nasconde la semplice evidenza che di tanta bellezza ancora non si sappia cosa farsene, se non costringerla nella tranquillità che appartiene alle cose morte o date per morte.
Nei “Quaderni azzurri”, a una pagina fatalmente lasciata aperta alla mostra, Aldo Rossi scrive: “Questi monumenti veneziani sono in gran parte Venezia / sono l’uso della bellezza e della fantasia. Tutto ciò che non viene usato è in qualche modo triste, inutile, superfluo.”
E questo è il commento più onesto che si possa fare.