Tra le non molte donne architetto di fama internazionale spicca per freschezza inventiva Benedetta Tagliabue, italiana di origine ma da tempo stabilitasi in Spagna. Dopo la laurea presa nel 1989 all’Università IUAV di Venezia, Benedetta si è trasferita a New York, iniziando il mestiere di architetto e parallelamente l’attività didattica che l’ha vista attiva in diverse università (tra le quali ricordiamo l’Università politecnica della Catalogna e il Politecnico di Milano). Nel 1994 fonda a Barcellona, insieme al marito Enric Miralles, lo studio di progettazione EMBT, che condurrà da sola dopo la morte improvvisa del partner nel 2000. Oggi, lo studio EMBT, che ha sede anche a Shanghai, opera in tutto il mondo (Europa, Cina, Taiwan, ecc.) e ha ricevuto numerosi riconoscimenti per l’attività svolta nel corso degli anni, tra cui il recente Piranesi Prix de Rome.
Donna architetto, si è detto, o semplicemente “architetto” – come anche Zaha Hadid voleva essere chiamata – Benedetta Tagliabue ha coltivato molteplici interessi ruotanti intorno all’architettura, dalla pianificazione al paesaggio, dalla progettazione architettonica al design. Non è tuttavia possibile parlare del suo lavoro senza ricordare il ruolo che ebbe Enric Miralles nel definire la linea culturale divenuta caratteristica dello studio EMBT.
Miralles, professionista spagnolo tra i più noti sulla scena architettonica internazionale, è stato il protagonista affascinante degli ultimi decenni del secolo scorso per il suo modo anticonformista di intendere l’architettura, che gli ha valso la definizione di “architetto visionario” da parte della critica. Una definizione in certa misura di comodo, che manca di delineare con maggiore precisione i tratti salienti di un’esperienza originale, non allineata alle principali tendenze in atto. Una definizione in definitiva liberatoria e riduttiva.
Il modo soggettivo di lavorare di Miralles nasce dalla sua propensione a instaurare rapporti scambievoli tra architettura e coté artistico, interpretando le sollecitazioni provenienti dal mondo fattuale come sogno della realtà e arrivando per questa strada a superare la ritualità del progetto moderno con un work-in-progress basato sul ricorso costante all’elemento fantasioso. La lecorbusiana “ricerca paziente” – che è stata per molto tempo un must dell’architettura moderna – si è così trasformata in tensione dinamica del progetto nell’immediatezza del fare, secondo una visione ludica dell’architettura rinnovata di volta in volta. La ricerca estrosa, non rituale e talvolta surreale di Miralles si è quindi sostanziata di rimandi alla prassi artigianale, operando per augmentationem là dove la certezza di una teoria è stata sostituita dall’approccio empirico. Ciò ha comportato di conseguenza l’adozione di metodiche progettuali inusuali, la principale delle quali è stata il collage inteso come operazione propedeutica a esiti non ipostatizzati, quando l’utile e il variabile sembrano essersi scambiati i ruoli. La capacità di generare stupore di fronte a forme plastiche segnate dall’eccesso e dall’esuberanza si è perciò attestata su un orizzonte aperto, cogliendo il valore estensivo del concetto di “opera aperta” introdotto da Umberto Eco nell’ambito letterario.
Miralles Tagliabue – EMBT, Mercato di Santa Caterina, Barcellona, Spagna, 1996-2005.
Il contributo di Miralles all’architettura contemporanea si è pertanto caratterizzato per il rifiuto della forma rigida e chiusa a favore di una visione fluida e movimentata dell’architettura, con la curva assurta a linea d’elezione. L’inedito sta quindi dietro l’angolo quando l’identità estetico-morfologica di un edificio non è derivata da soluzioni codificate in questa o quella scuola di pensiero, ma è libera di svolgersi nel regno del possibile altro, fatto di forme piegate con manualità artigianale, di capacità di esibire i materiali nella loro ricchezza naturale, di volontà di sostituire i materiali tradizionali con stoffe intrecciate e sottili arabeschi di legno, di impiego estensivo delle pietre colorate come era nella tradizione catalana: tutti elementi già presenti nella nostra storia architettonica che il mito della tecnologia celebrante se stessa ha invece occultati. La scoperta di una modernità di tipo diverso è stata quindi per Miralles motivo del costante confronto tra il permanente e il mutevole, studiando le potenzialità inespresse di una tradizione che ha avvicinato l’architetto all’artista attraverso quell’esercizio di libertà di scelta che è sinonimo di felicità del progettare.
Ma torniamo ancora un momento sulla definizione di “architetto visionario” come metafora della fantasia spinta ai limiti del fantastico. Se da una parte l’etichetta di “visionario” ha surrogato la difficile collocazione dell’opera di Miralles tra postmoderno e decostruttivismo (categorie non del tutto espunte da certi momenti della sua attività), dall’altra parte si tratta di una definizione equivoca per il quoziente di negatività che contiene, dovuto essenzialmente a un difetto di traduzione. L’inglese “visionary” (su cui è ricalcato l’italiano “visionario”) ha infatti un significato completamente diverso, marcatamente positivo, riferibile ai grandi innovatori, ai grandi politici e agli artisti più estrosi e inventivi. Miralles non è stato dunque un utopista o un disegnatore di mondi irrealizzabili, ma un architetto costruttore che ha conseguito nel suo ambito risultati di alto livello professionale. E se ancora si vuole parlare di visionario, bisogna allora farlo in senso positivo, magari ricorrendo all’ossimoro “visionario realista”.
Per inciso, ricordiamo che anche Gaudí era stato chiamato “visionario”, non riuscendosi a spiegare altrimenti la complessità fenomenica di un’architettura che ha sempre patito di una collocazione troppo stretta nella categoria storiografica di Modernismo catalano. Le Corbusier aveva definito Gaudí “il plasmatore della pietra, del laterizio e del ferro” e non c’è dubbio che del maestro catalano Miralles è stato uno degli eredi più sensibili, capace di interpretare il suo mondo ideale alla luce delle necessità attuali. Da Gaudí Miralles ha certamente appreso il rifiuto della tecnologia fine a se stessa, stringendo, senza dichiararsene epigono, un legame con la tradizione catalana, che ricompare come un fiume carsico in molte sue opere, soprattutto negli apparati decorativi. Cose simili si potrebbero dire citando altre figure, come Eladio Dieste, Félix Candela e Paolo Soleri, che sono l’altra faccia dell’architettura contemporanea, alternativa alle tendenze più accreditate dagli storici a succedere al Movimento Moderno.
Tra i temi da trattare parlando di Miralles ci sarebbe quello del rapporto con la tecnologia, che qui per brevità non possiamo affrontare. Occorre quantomeno accennare all’importanza che ha avuto per Miralles uno dei materiali costruttivi più antichi, il legno, prediletto in molte occasioni tanto da preferirlo al ferro e al cemento armato per la possibilità di trasformare la struttura in apparato decorativo, come fece anche Michelucci negli anni Sessanta. Soprattutto nell’ambito del design e della progettazione di elementi di arredo il legno si è rivelato il materiale perfetto per una ricerca di qualità artigianale colta che ci ricorda Matisse quando, messi da parte i pennelli, scelse la carta e le forbici per comporre pannelli colorati che hanno aperto un nuovo filone di esperienze nell’attività artistica del vecchio maestro.
Finora si è parlato di Miralles come architetto talentuoso che ha creato uno stile personale. Ma la domanda che ora viene da porsi è fino a che punto sia stato il cavaliere solitario che ha tracciato la propria strada mentre la percorreva. In realtà, negli ultimi vent’anni della sua breve vita Miralles ha lavorato gomito a gomito con Benedetta Tagliabue, compagna di vita e di lavoro, condividendo con lei le sue idee così come lei avrà condiviso con lui le sue. E che all’interno di questo sodalizio professionale non ci sia stata preminenza ma condivisione dei fini è dimostrato da quanto è successo dopo la scomparsa improvvisa di Enric nell’anno 2000.
Miralles Tagliabue – EMBT, Parlamento scozzese, Edimburgo, Scozia, 1999-2004.
Alla sua morte Miralles lasciava diversi lavori incompiuti, come il Mercato di Santa Caterina, il Diagonal Mar Park a Barcellona e, principalmente, la sede del Parlamento scozzese a Edimburgo, un complesso che lo storico del Post-Modern Charles Jencks ha definito “un insieme di arte e qualità senza pari negli ultimi cento anni di architettura britannica”. Il concorso per la nuova sede parlamentare vinto nel 1998 diede un rilievo internazionale allo studio EMBT, sia per l’importanza del tema che per le dimensioni del complesso, comprendente, oltre al palazzo parlamentare, gli edifici che gli fanno da contorno costruendogli una sorta di habitat. A poca distanza dal Parlamento sorge il Palazzo di Holyrood, una delle residenze della casa reale britannica, e il contrasto stilistico non potrebbe essere più deciso: da una parte il castello seicentesco eretto in lontananza nel parco esprime l’autorevolezza dell’istituzione monarchica e al tempo stesso misura la distanza da interporre tra quella e la massa; dall’altra il Parlamento con le sue sfrangiate articolazioni volumetriche e cromatiche presenta il carattere civile ed estroverso del villaggio festoso che lo fa sembrare un pezzo di città popolato di gente.
Negli anni seguenti alla scomparsa del marito Benedetta ha portato a termine questi e altri lavori rimasti in sospeso, completandoli fin nei minimi particolari. E ha potuto farlo con sicurezza perché quei progetti erano anche suoi. La continuità stava dunque nell’ordine delle cose. Tuttavia, dopo un quarto di secolo è evidente che l’architettura dello studio EMBT ha avuto un’evoluzione dovuta al naturale processo di maturazione di Benedetta come architetto. Diciamo evoluzione e non trasformazione perché molti temi già visti sono rimasti, trattati però con un diverso impulso, che compendia i tratti più decisi della forma con la morbidezza delle linee, con l’allargamento della tavolozza cromatica attraverso varie sfumature di colore, con la ricerca di fragilità apparente del dettaglio costruttivo e decorativo.
Miralles Tagliabue – EMBT, Parlamento scozzese, Edimburgo, Scozia, 1999-2004.
Tra i lavori che si potrebbero analizzare, due sembrano i più riassuntivi. Il primo è la stazione della metropolitana di Napoli del 2021, dove è ripresa la soluzione già adottata per il mercato di Santa Caterina a Barcellona (un intervento, questo, progettato a quattro mani nel 1996 e terminato da Benedetta nel 2005). A Barcellona, una grande copertura nasconde sotto di sé il vecchio mercato, gettata come un manto sulla piazza a costituire il segno urbano capace di riscattare l’anonimato del luogo con una sinfonia di colori. Il manto è mosso e il movimento viene dichiarato dalle tre grandi arcate diseguali che sopravanzano l’edificio ottocentesco preesistente. A Napoli la stessa soluzione è sviluppata in sei arcate diseguali, ma il movimento si è ammorbidito, trasformato in un dolce onda. A differenza di Barcellona, dove esiste una dicotomia tra la struttura in ferro e la copertura leggera come un tessuto, nella stazione di Napoli la prevalenza del legno è assoluta, impiegato con una varietà di soluzioni costruttive che ne ampliano le possibilità espressive. Il risultato, pieno di suggestione, sembra ricalcare in un contesto assolutamente diverso la ricchezza interna della Sagrada Familia.
Miralles Tagliabue – EMBT, stazione della metropolitana di Napoli, 2021.
Il secondo esempio è la chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara, completata nel 2021. La pianta a nucleo centrale si espande in modo centrifugo, generando corpi di fabbrica di diversa dimensione che sembrano contrastare con la centralità dell’organismo. L’unità dell’insieme viene recuperata dalla copertura molto sporgente, gettata sull’edificio come un mantello nelle cui pieghe rimane fissato, come in uno scatto fotografico, il movimento barocco dell’ampio gesto avvolgente. L’interno della chiesa è di una ricchezza paragonabile all’aula del parlamento scozzese, sicuro antecedente, ma di diverso carattere. L’iconografia cristiana è diffusa e la direzionalità del luogo è indicata dalla grande croce sospesa in aria, formata da due travi lignee recuperate da un altro edificio che attraversano in lungo e in largo lo spazio intersecandosi sopra l’altare. Le pareti di cemento a vista sono nude, così che l’atmosfera dell’interno è “riscaldata” soltanto dalla ricca e variegata controsoffittatura di listelli di legno intrecciati come fili di un merletto. Le capriate scozzesi si sono qui trasformate nella trama di un tessuto svolazzante che richiama nuovamente l’immagine del manto steso a protezione della comunità dei fedeli.
Miralles Tagliabue – EMBT, chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara, 2016-21.
Il tema dell’edificio religioso è senz’altro uno dei più coinvolgenti e promettenti. Ed ecco che l’idea del manto come elemento di architettura, oltre al significato simbolico che assume in questo caso, finisce per rientrare nelle premesse del transfert che caratterizza il rapporto corpo a corpo dell’architetto con la sua opera. Il manto è indubbiamente quella parte del vestiario che ha assunto nella storia dell’abbigliamento un valore sia funzionale che estetico, diventando identificativo del modo di presentare l’individuo all’esterno di se stesso. Trasferito in architettura, il manto diventa allegoria della figura umana, acquisendo un preciso significato antropologico. La scoperta di una relazione tra abito e architettura non è del resto nuova. L’aveva già rilevata Adolf Loos, il quale, parlandone sottotraccia nei suoi scritti, lasciava intendere con ironia che per comprendere fino in fondo un’architettura bisognerebbe anche guardare a come si veste l’architetto. L’architettura come manto che avvolge lo spazio, lo protegge e lo identifica è dunque paradigmatica di una volontà del vestire l’architettura come se si trattasse di costruirne l’abito. In questo senso, Loos aveva ragione.
Miralles Tagliabue – EMBT, chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara, 2016-21.