In un momento storico in cui la città di Trieste ha avviato un importante processo di valorizzazione del suo waterfront iniziando concretamente, dopo anni di pensieri, sperimentazioni e progetti, la riqualificazione del “Porto Vecchio” – grande scalo dismesso situato in pieno centro, che si estende per oltre 3 km sul lungomare cittadino – questo lavoro del fotografo Marco Introini, che documenta la consistenza, ma anche lo “spirito”, del patrimonio edilizio e degli spazi aperti prima della loro trasformazione, assume un valore speciale. Forse anche per via della consapevolezza che si tratta di uno degli ultimi sguardi concessi all’archeologia industriale pura, prima di qualsiasi intervento, che sicuramente ne conserverà la memoria, ne rilancerà la funzione, ma porterà inevitabilmente via con sé uno strato della sua percezione e della sua storia, ma soprattutto questa affascinante condizione di sospensione.
Nell’antico scalo, la cui denominazione è già passata, tra gli addetti ai lavori – ma sempre più anche tra gli abitanti di Trieste – da “Porto Vecchio”, a “Porto Vivo”, dal 2017 è iniziato un processo di riqualificazione e rigenerazione urbana. Dapprima vi è stata la realizzazione di sottoservizi, percorsi e parcheggi; negli ultimi anni, anche grazie a finanziamenti del Ministero della Cultura e a fondi PNRR, sono nati numerosi progetti di recupero che si stanno attualmente muovendo verso la fase di cantiere.
Hanno lavorato alla trasformazione del porto firme note della progettazione architettonica e paesaggistica, quali lo studio LAND (Linee guida complessive e masterplan degli spazi aperti), Atelier(s) Alfonso Femia (progetto del cosiddetto “Asse Natura”), Studio Fuksas (progetto delle stazioni della cabinovia prevista nell’area e che la collegherà con l’altopiano carsico), Studio Enota (“cittadella dello sport”), Guillermo Vazquez Consuegra (Museo del Mare all’interno di uno dei vecchi magazzini).
È possibile trovare una panoramica sui progetti in corso nel sito dedicato, “Porto Vivo”, creato dal Comune di Trieste.
L’intervista a Introini riguarda le fotografie realizzate su commissione dell’Atelier(s) Femia come base conoscitiva per l’elaborazione del progetto dell’Asse Natura. Ringraziamo Introini e lo Studio Femia che ci hanno fornito e concesso di utilizzare le immagini.
La vista dalle “rive” di Trieste, con il faro “Lanterna” sulla sinistra. Foto di Marco Introini.
Quale è stato il suo approccio per questo lavoro?
MI: Coerentemente con la mia decennale ricerca sulle città, non mi sono concentrato solo sul Porto Vecchio, ma ho voluto esplorare anche il contesto circostante, in particolare il cuore di Trieste: il suo centro, con il Canal Grande, che porta il mare dentro la città; la famosa piazza Unità, che si affaccia maestosa sul golfo; le architetture monumentali che caratterizzano il borgo Teresiano (ampliamento ottocentesco del nucleo urbano storico, ndr); le “rive”, il lungo viale che si affaccia sul mare; fino ad arrivare alla stazione ferroviaria e ai varchi monumentali, che segnano l’accesso all’antico scalo. Questo modo di esplorare è stata la base sulla quale è nata la collaborazione con Alfonso Femia: conoscere il luogo del progetto attraverso sguardi lontani che si avvicinano, con l’idea che il progetto si restituirà alla città.
Uno degli elementi guida che ho scelto per raccontare Porto Vecchio è stato quello dei binari ferroviari, che hanno permesso la costruzione e il funzionamento del porto stesso – la via per il trasporto dei materiali per realizzare la colmata di un’area che apparteneva alle acque, i tracciati su cui venivano movimentate le merci – ma che, allo stesso tempo , hanno costituito un limite invalicabile, tale da isolare il Porto Vecchio dal resto della città, sebbene esso si trovi vicinissimo al centro urbano.
Ho seguito i binari e ho messo in risalto la dialettica che esiste, in questo luogo, tra le architetture, i segni dell’uomo con le sue (per lo più dismesse) attività e la riconquista di questo spazio da parte della natura, a formare quello che viene definito oggi “terzo paesaggio”: un paesaggio marginale, interstiziale, che colonizza i luoghi abbandonati.
I varchi monumentali di accesso a Porto Vecchio, opera dell’ingegnere Giorgio Zaninovich (attorno al 1910). Foto di Marco Introini.
Questo luogo le ha ricordato altri viaggi, altre geografie?
Sì, alcuni tratti dei binari mi hanno riportato alla mente il Los Angeles River, che ho fotografato nel 2016.
Anche in quel caso si tratta di un’infrastruttura che costituiva un elemento di cesura urbana, un’architettura lineare su cui poi si è sviluppato uno dei più interessanti casi mondiali di rigenerazione urbana. Da luogo degradato, con il corso del fiume in buona parte cementificato, è stato trasformato in un lungo parco, con molti tratti di canale rinaturalizzati e resi accessibili e con la realizzazione di percorsi ciclopedonali. Un radicale cambio di visione, che ha riportato una ricca biodiversità fluviale e una grande vivacità sociale in un tessuto densamente costruito.
Su questo esempio, guardando ai binari dismessi di Porto Vecchio, tra i quali si insinua frequentemente la natura selvaggia, ho pensato alle enormi potenzialità di quest’area.
Magazzini 3 e 4, affaccio sul viale che diventerà l’“Asse Monumentale” nel progetto di rigenerazione dell’antico scalo portuale. Foto di Marco Introini.
Come interpreta il rapporto di quest’area con il mare?
Il Porto Vecchio è una parte di città, un’opera dell’uomo che si è sovrapposta e ha cancellato la conformazione naturale della linea di costa, come per altro avviene sulla maggior parte dei waterfront urbani. Ma qui l’intervento antropico è molto evidente, per via delle linee forti dell’impianto urbanistico con i suoi assi e i suoi edifici: un gesto particolarmente incisivo, forse anche per contrasto con l’andamento del litorale che, andando verso nord, verso Barcola, diventa relativamente più dolce, più naturaliforme.
Ma, oltre a quello fisico, non dobbiamo trascurare il rapporto immateriale del porto con il mare. Qui arrivavano da ogni luogo e ripartivano merci, ma anche idee, cultura, conoscenze. Questo scenario, oggi immobile, era un luogo attraversato da continui movimenti e scambi. Quando si cammina in questo luogo c’è uno sguardo anche mentale che percepisce tutto il prezioso vissuto che vi è, per così dire, “immagazzinato”.
La rete dei binari dismessi con le aree tonde per la movimentazione dei vagoni. Sullo sfondo il magazzino 7 e la Palazzina dell’amministrazione. Foto di Marco Introini.
E il rapporto di quest’area con l’altro lato, con la città che sta alle sue spalle?
Poter osservare la città da questo nuovo punto di vista, cioè trovandosi all’interno di un’area che prima era inaccessibile, è stato sorprendente e spiazzante. Il muro che delimita il Porto Vecchio, al di là del quale si staglia la città, con i suoi colli abitati, e la consapevolezza che questo muro in futuro non sarà più un confine, mi hanno fatto venire in mente il ruolo di un altro muro, quello della vecchia Fiera Campionaria di Milano, la cui eliminazione ha cambiato totalmente la percezione di quella parte di città.
Gru di sollevamento, elementi di archeologia industriale tutelati. Foto di Marco Introini.
Quale poetica e quale tecnica (che credo siano strettamente correlate nell’arte fotografica) ha adottato per conferire il carattere particolare che queste immagini possiedono?
Ho prediletto una luce netta e pulita, con un cielo terso e il sole estivo che arriva diretto e forte sulle superfici, mettendone in risalto i dettagli in una maniera quasi iperrealistica.
Ho scelto i momenti in cui i paesaggi erano per lo più privi di persone, cosa che ovviamente è stata molto agevole nel Porto, dove gli spazi si presentano per lo più vuoti e puri.
Ho cercato, quando possibile, di includere negli scatti anche il paesaggio, che in Porto Vecchio significa avere lo sfondo visivo del Carso, del colle di San Giusto o del mare.
La bellezza di Trieste e delle città di mare è quella di poter vedere l’orizzonte. E, parafrasando Gabriele Basilico, “la fotografia è l’unico modo per toccare l’orizzonte”.
La vista dal Porto verso la città e il Carso. Foto di Marco Introini.