Nato a Bari, dopo la laurea conseguita a Firenze, lavori per circa due anni a Parigi per stabilirti, poi, negli anni ’80, a Milano, dove apri lo studio di progettazione mentre inizi a collaborare con Vittorio Gregotti. Si può sostenere che la tua formazione non è stata per niente statica, ma, anzi, aperta a tante esperienze culturali e professionali differenti. Pensi che ciò possa averti aiutato nel lavoro e che abbia in qualche maniera influito sul tuo modo di affrontare la progettazione?
Differentemente rispetto a quella attuale, la condizione degli anni Settanta era di “naviganti che navigano” (almeno per citare Ivano Fossati e la sua bella canzone), quindi il viaggio era, in qualche modo, implicito nell’idea di formazione.
L’università, per molti e, in particolare per l’architettura, richiedeva il viaggio. Poche sedi, prestigiose, antagonistiche, rivali senza rancore, fari, più che torri di guardia.
La documentazione richiedeva il viaggio. L’altrove era sinonimo di ricchezza e non di paura.
C’è una specularità nell’apparente mobilità via media con la staticità territoriale della sedia su cui ci infossiamo davanti a un video, credendo di spostarci, e la paura del contatto fisico con chi invece ci viene a visitare. Naviganti senza navigare. Impauriti dai naviganti veri che arrivano.
Passare altrove non era una prerogativa mia, ma una condizione comune. Piuttosto era in discussione l’idea di “tornare”. Per quanto mi riguarda, tornare in Puglia non è mai stato in discussione, perché pensavo che ovunque, in Italia, avrei potuto lavorare altrove, quindi anche dov’ero nato. Forse son stato aiutato dal fatto che né mia madre né mio padre fossero di Bari.
Il richiamo dell’estero è stato prima dell’Erasmus (non c’era), per tante ragioni, la più forte: Baudelaire e Truffaut, che, al liceo, la nostra professoressa Fiore era riuscita ad anteporre alla cultura anglosassone di moda. Così Parigi è diventata una meta che non aveva niente a che fare con la fuga (anche perché ci consideravamo complessivamente, dal punto di vista corporeo, e non solo cervelli), ma una casa più lontana, come Travemünde sognata attraverso i Buddenbrook, il fiume Ebro con gli occhi di Robert Jordan, Delft ma solo dai quadri di Vermeer. L’Europa, per noi, è sempre esistita, prima che politicamente, un po’ burocraticamente. Non ho mai pensato di essere solo italiano. E l’Università, anche per una ragione etimologica, per la mia generazione era ostentatamente antinazionalistica.
Ingresso alla galleria commerciale City Life, Milano, 2017. Foto di Alberto Muciaccia.
Lungo la tua carriera hai partecipato a numerosi concorsi di architettura, nazionali e internazionali, vincendone molti. A questo proposito sembrerebbe anche che la pratica concorsuale sia congeniale al tuo lavoro professionale, visti i numerosi successi ottenuti, anche se poi vari progetti risultati vincitori non sono mai stati realizzati.
Si tratta di un problema principalmente italiano di poca cultura concorsuale, o questa situazione è riscontrabile anche all’estero?
Se non vinco competizioni non lavoro, perché non ho una famiglia potente e legami politici (o associativi).
Il concorso d’architettura l’ho scoperto, con terrore, al terzo anno di architettura. Lavorando con Savioli e Ricci per il concorso del Centro direzionale a Firenze, poi con il gruppo dei loro assistenti: Breschi, Pecchioli e altri, al concorso per L’Arboreto di Pistoia. Un incubo scoprire che per essere come gli Architetti che ammiravo, occorreva lavorare sempre senza sapere se quello che si pensava, studiava, disegnava, sarebbe stato realmente un “lavoro”.
Un concorso non si perde mai, alcune volte si vince. Un concorso si pratica come l’essenza del modo di essere architetti, riversando questa dignitas in ogni prestazione professionale.
Il che vuol dire che negli incarichi occorre spesso dire no al committente, perché si è pagati soprattutto per non fargli fare errori. Sapendo, anche, che solo una parte del nostro lavoro “appartiene” a chi investe attraverso di noi. Buona parte appartiene a un uso esteso, che dovrebbe essere la sostanza dell’architettura, come la definiva Edoardo Persico: “Sostanza di cose sperate”, parafrasando Dante, che continuava “ed argomento delle non parventi”, riferendosi alla fede. Un patrimonio comune, che rientra nel “bene comune”. Senza nessuna arroganza, ma con la consapevolezza che un incarico privato si realizza con la modificazione del paesaggio pubblico. Ergo, il secondo aspetto è più importante del primo.
In Italia manca una legge sul concorso d’architettura. Il concorso era prassi anche all’epoca di papa Leone X, della famiglia Medici, che bandì un concorso per la facciata della Basilica di San Lorenzo, cui parteciparono alcuni tra gli architetti che hanno fatto la Storia, Michelangelo compreso, e che alla fine nessuno realizzò. Questo andrebbe ricordato.
Oggi il mercato pubblico passa attraverso la gara, fornitura di servizi. Come dire: chi la fa più veloce e chiede meno soldi realizza. Un po’ come una fornitura di pomodori. Come se, dovendo comprare un’auto, una famiglia scegliesse al buio nella gamma dei 19.000 euro, solo basandosi sullo sconto (tutti uguali comunque!) e senza guardare i modelli.
Nel concorso, a parità di investimento, la differenza sta proprio nel progetto, nell’architettura. Ma scegliere sulla base di una proposta culturale (a parità di prezzo) è tra le cose meno sicure in campo politico. E far veder prima, cosa si costruirà poi, è ancora più pericoloso e meno premiante.
Dire che il progettista ha chiesto meno soldi (la parcella incide per meno del 5%) è molto più semplice. “E poi, cos’è questa architettura?”, varrebbe la pena di fare un sondaggio tra i nostri sindaci.
Architectural Competition for Cyprus Museum, 2017. Tavola di concorso.
Hai realizzato numerosi edifici pubblici per amministrazioni comunali, ma anche opere per gruppi di investitori privati. Quali sono le principali differenze nel relazionarsi con gli uni o con gli altri? Davvero le amministrazioni pubbliche sono così lente e poco efficienti o c’è una sorta di pregiudizio in tutti noi nel giudicare il loro operato?
La mia esperienza con le Province, per la costruzione delle molte scuole che ho realizzato, è stata l’inverso della vulgata anti-statalista. Gente formidabile, preparata, inflessibile con le imprese, attenta al progetto. Un peccato averle smontate. Erano lì dall’epoca romana, una ragione doveva pur esserci.
I privati sono poi di tipi molto diversi tra loro. La Chiesa è un committente complesso, plurimo, in cui la dialettica interna è impensabile se non si ha la fortuna di realizzare un’opera.
Poi ci sono i “privati-privati”, persone che costruiscono la loro casa, la loro fabbrica, i loro uffici e che, molto di rado, ho incontrato. Si realizza, in quel caso, una condizione che ricorda le leggende studiate nei libri di storia. Belle e difficili, perché ognuno, oggi, è capace di andare oltre il desiderio e ha una cripto-immagine di ciò che sogna. La difficoltà è che la necessità di un privato è spesso più pressante dei suoi desideri. Il nostro lavoro è quindi ricordare loro che “siamo fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni”. Non sempre riesce.
Poi ci sono le Holding. Lì il problema è complesso. Parliamo con persone che gestiscono piani economici aziendali, frutto di strategie che li sovrastano, solo raramente decise in prima persona, mentre in prima persona devono rispondere del loro successo. Persone che non hanno, spesso, una vera competenza architettonica e non hanno sogni in questa materia specifica. Soggetti spesso a una figura collaterale, l’influencer, che solo in rarissimi casi ha una statura culturale decisiva. Inutile citare con loro La tempesta. Bisogna far tornare i conti (cosa che comunque occorre rispettare), ma dando loro un’importanza narrativa che non hanno. Il più difficile, con questi clienti, è spiegare (sempre in maniera ellittica) il rapporto tra prezzo e valore. Si riesce spesso a farlo invocando manutenzione e durata, pannicelli caldi. Il clou, il fondamento marxiano della distinzione, non rientra nella sintassi della finanza. Anche se, a lavoro fatto, l’esibizione estetica che crea consenso dovrebbe far riflettere anche loro.
L’architettura è anche un processo di valorizzazione del capitale investito.
Scuola elementare ad Arcore (Monza e Brianza), 2005. Foto di Alberto Muciaccia.
Le tue realizzazioni si possono definire come l’espressione contemporanea e critica dell’architettura del movimento moderno? Opere in cui la socialità del luogo progettato è stata messa in primo piano rispetto al sobrio e al fin troppo banale funzionalismo, architetture senza “effetti speciali”, che non cercano rifugi in facili escamotage architettonici alla moda?
Questa non è una domanda, è il sommario di un saggio.
Parto dal Movimento Moderno e arrivo al Movimento Moderno. Nessuno ne è estraneo. Neanche chi, come Rossi, ne ha dato la lettura più critica. Anche per Aldo era ineliminabile, perché ne coglieva gli elementi che trascendono la sua riduzione a codice formale. Nel trattato-anti-trattato Vers une architecture di Le Corbusier, si precisa che coerenza strutturale e risposta funzionale non sono architettura, sono i compitini per studenti senza i quali non si è neanche costruttori primari. E con Mies van der Rohe si riproponeva la definizione di “spirito di un’epoca”. Il tedesco concludeva ironizzando “l’architettura non cambia tutti i lunedì”.
Quindi, io cerco di attenermi alla domanda di cosa è fondamentale nella nostra epoca per poter migliorare la vita con il progetto.
La mia conclusione è un atteggiamento opposto all’elogio dello Spazio-spazzatura che Rem Koolhaas fa, cercando di convincerci che il reale è (per sé stesso) razionale, riproponendo la passività idealistica antimoderna già nota in filosofia. Questa posizione sdogana il nostro lavoro come attività di esteti dell’apocalisse, una “gaia apocalisse”, che Koolhaas descrive attraverso un mondo organizzato da processi e non più da progetti. Dove tutto accade attraverso la forza implacabile dell’economia tradotta in spazio, con fenomeni che l’olandese trasferisce in una sfera di assolutezza e di intoccabilità, riportando la lettura del mondo (o parti di esso) alla stessa condizione con la quale guardava il mondo il pensiero classico, premoderno, attraverso il mito. Peccato che si tratti di un mito non fondativo del rapporto tra Caos e Cosmos (che era quello di un processo ordinativo anche se imperscrutabile), ma di un mito della catastrofe finale, dove per catastrofe si intende la rinuncia a capire il senso delle cose. Comunque, di una condizione che possiamo solo accettare nella sua totalità per quello che è, qui e ora, senza neanche chiederci da dove viene e dove ci porta.
Una confusione tra consapevolezza della natura dei paesaggi che viviamo e lettura critica. Tra accettazione e trasformazione. Tra Fato/Destino e Libero arbitrio.
Io non credo al destino. Persino la scienza recente, gli studi epi-genetici, confermano che la predeterminazione del DNA, quel tragico “progetto cromosomico” che Jacques Monod individuava come nuovo Fato negli anni sessanta, conta negli individui tra il 4 e il 5%. Tutto il nostro essere è liberamente modificato (e il DNA stesso) dall’ambiente, l’alimentazione e la cultura. Come dire: siamo noi che decidiamo persino i nostri cromosomi, siamo noi, come Corto Maltese, che incidiamo col coltello la linea della vita nel nostro palmo perché sia più lunga. O diversa. O migliore.
Il carattere della nostra epoca è proprio quello di invertire i processi di dissoluzione ambientale, spaziale, quella di configurare paesaggi con variazioni motivate. Di considerare il progetto come modificazione (nei limiti dei mezzi a disposizione) che riconfiguri differenze, contro la vulgata scema della globalizzazione che rende tutto uguale. Di ricordarsi del rapporto tra significante e significato, tra forma e senso, sapendo che il significato si produce attraverso le differenze.
Questo è il nostro Movimento Moderno attuale. Gran parte delle star di architettura combatte sul versante opposto, sono i cantori dell’”Ovunque”, credono che le differenze siano “formali”, da aggiungere “dentro e con” i loro edifici, non con i paesaggi che essi dovrebbero riconfigurare. Per questo, molte di quelle opere, pur essendo sempre diverse, sono sempre uguali, sono variazioni sul tema autoriale. Alla fine, sono la ripetizione di un brand che giustifica l’investimento abnorme per realizzarlo.
Chiesa di San Ireneo, Cesano Boscone (Milano), 1990. Foto di Alberto Muciaccia.
Milano è una città in trasformazione, che sembra non si debba fermare più: dopo Expo 2015, sono seguite la riqualificazione delle aree della Darsena, dell’ex Fiera e di Porta Nuova, per continuare con gli interventi previsti per le aree dismesse degli ex scali ferroviari urbani. Tu, da progettista, come giudichi – anche se in parte ne sei stato coinvolto, con la realizzazione della Promenade open air all’interno del CityLife Shopping District – tutta questa operosità e un certo trionfalismo che vi si respira, da parte delle istituzioni, degli investitori e di quasi tutta l’opinione pubblica?
Milano ha molte nuove polarità. Oltre la specifica formale architettonica, City Life è diversa da altri luoghi, perché ha mantenuto fede al progetto unitario d’origine, che aveva un senso. Tre edifici alti sul fuoco della Milano Nuova del Piano Beruto, il Campo di Marte, orientato Nord-Sud quando tutta la città, dai romani in poi, giace sul decumano N-O / S-E.
Attorno a questo fuoco, tre interventi di “ricucitura” residenziale. Quando siamo stati invitati al concorso per riprogettare la quota abitativa di Arata Isozaki, che aveva lasciato l’incarico, abbiamo proposto un sistema strutturato sugli assi urbani convergenti sullo spigolo della Fiera in Domodossola, non più agglomerati secondo linee, ma secondo punti. Sei edifici esili, alti, ben posizionati per non chiudere le prospettive delle strade verso City Life, che dessero a tutta la città la vista sul parco senza produrre barriere.
Quindi, abbiamo sviluppato il progetto generale preesistente declinandolo diversamente dall’originale in una parte specifica.
Le trasformazioni di programma intervenute dopo (raddoppio della quota commerciale, sua connessione con il reticolo urbano esterno, raccordo tra la quota urbana 124 e la quota torri 129) sono state possibili perché la nostra variante era molto connessa alla città. I princìpi, come sempre succede se sono sensati, consentono grandi variazioni di forma e contenuto, a parità di idee (di senso).
La buona riuscita dell’integrazione Domodossola, Monti, 6 Febbraio con il cuore del progetto sta proprio nella sua adesione a un principio di paesaggio complessivo modificato dal progetto grazie a tracciati motivati, comprensibili a chiunque, non dall’addizione di forme spettacolari autoreferenziali. Anche se poi la ricerca formale è fondamentale, ma solo dopo.
Sull’operazione non vedo tanto trionfalismo. È una realizzazione importante, se fosse stata sbagliata ne avrebbe pagato le spese tutta Milano, non solo Generali. Un po’ di fierezza è ora di recuperarla.
Per quanto riguarda Expo resto dell’idea che sia stato un errore volerlo fare a tutti i costi, senza concorso, senza progetto e tradendo il brief per il Padiglione Italia che doveva esser un edificio da riusare per laboratori di ricerca. Ora si proceda almeno a un concorso per la strategia insediativa futura, non a una svendita delle scelte urbane a chi ha i soldi per costruire l’intervento.
Liceo a San Giovanni Valdarno (Arezzo), 1992. Foto di Alberto Muciaccia.
Ormai sei un professionista affermato che ha costruito, e ha in corso di realizzazione, opere importanti. Che consigli pensi di poter dare a un giovane collega all’inizio della sua carriera professionale? C’è un “segreto” dietro il tuo successo o davvero basta “solo” dedicarsi con molta passione e dedizione al proprio lavoro?
Quello che ho detto a proposito dei concorsi: fare i progetti come se ciascuno avesse un’importanza capitale per il valore del luogo. Non sempre è vero, alcune volte succede, ma se non ci si pone in questa ottica non succede mai.