A partire dal 1976, provenienti da diverse nazioni ed afferenti a scuole di architettura di diversa tradizione, studenti, neolaureati, docenti giovani e maturi si riuniscono durante il periodo estivo di sospensione del calendario accademico per affrontare un tema di progetto nel luogo del progetto.
L’idea degli “International Laboratory of Architecture and Urban Design”, ILAUD, fu di Giancarlo De Carlo. Il volume, curato da Paolo Ceccarelli ed edito dalla Fondazione OAMI, in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di De Carlo, ricostruisce le ragioni della fortunata esperienza sopravvissuta alla morte del suo ideatore, attraverso contributi provenienti da ogni parte del mondo che mettono a fuoco caratteri specifici e al contempo testimoniano di una complementarità di apporti. Editi in lingua inglese, ad eccezione di pochi paragrafi tradotti anche in italiano, i contributi degli autori sono ordinati in tre sezioni, la prima e l’ultima dedicate ai laboratori con e post De Carlo, quella centrale dedicata agli “issues” che hanno caratterizzato – e caratterizzano tutt’ora – l’esperienza didattica.
L’introduzione di Ceccarelli ricostruisce il background storico della vicenda ILAUD, maturata a seguito dell’esperienza americana di De Carlo, con radici che pescano nell’intenso trentennio precedente: anni dominati da drammatici eventi storici e segnati dall’esperienza di De Carlo nei Ciam prima e nel Team X subito dopo, dalla animata collaborazione con la “Casabella-Continuità” di Rogers, dalla partecipazione attiva a comitati colti quali l’M.S.A. (the Studies Movement for Architecture) o di confronto interdisciplinare in istituti come l’ILSES (Lombard Institute of Economic and Social Studies) e contemporaneamente all’attività di docenza presso lo IUAV nel periodo che l’autore definisce come i tra i più felici del prestigioso istituto veneziano.
Il curatore indica al lettore i temi che con continuità hanno contraddistinto le attività laboratoriali stimolate da incarichi di una committenza reale. La centralità di una lettura diretta del contesto. La ricercata partecipazione intesa sempre come opportunità di allargamento della conoscenza e mai come deresponsabilizzazione del progettista. La nozione di progetto inteso quale strumento di ricerca e quindi automaticamente “tentativo”. La sperimentazione, innovativa per quei tempi, di una apertura alla molteplicità dei linguaggi sia nella strutturazione e restituzione delle analisi che nelle proposte di progetto.
La prima sezione, dedicata ai laboratori degli anni 1976-2004 seguiti direttamente da De Carlo, divulga, attraverso un coro di voci di prim’ordine, il modus operandi – e vivendi – ILAUD.
L’intervista a Etra Occhialini, “Connie”, che introduce la sezione, si rivela una utile chiave di lettura, nei confronti di quello che l’autrice rivendica essere un “modo di lavorare” e non un modello. Nulla negli ILAUD era improvvisato sembra evidenziare l’autrice, come del resto rimarcherà anche Donlyn Lyndon nella sua preziosa testimonianza. L’attività continuativa di preparazione ai laboratori estivi è documentata dalla descrizione del doppio tempo dell’ILAUD: i noti “summer laboratory” erano sostenuti dalle meno visibili “permanent activities” che ciascun istituto universitario conduceva autonomamente in sede nel periodo invernale. Il “Bullettin”, in quanto strumento di raccolta atto a garantire la condivisione degli avanzamenti a tutti i partecipanti oltre che la registrazione delle lezioni tenute dai lecturer esterni, è presentato come un antenato dei più recenti blog-database.
Marco Biraghi sottolinea i caratteri innovativi di una esperienza che per prima ha testato l’idea di rete tra diverse università, utile a comparare idee e tendenze sull’insegnamento, sulle nuove metodologie e tecniche di progettazione non attraverso la discussione teorica ma tramite l’attività di ricerca progettuale. Attività che, condotta in piccoli gruppi di lavoro internazionali, metteva in luce e si avvaleva di attitudini peculiari di ciascuna scuola di architettura, come la nordica sensibilità all’ambiente naturale o il nordico approccio intuitivo che Olaf Fjeld ricorda essere in palese antitesi con altre tradizioni di avvicinamento al progetto storicamente legate ad approcci analitici codificati.
La risoluzione dei contrasti di vedute all’interno dei team di lavoro era spesso affidata a De Carlo stesso cui si riconosce una indiscussa capacità di gestire il dibattito tra gli studenti e tra questi e i loro insegnanti senza cedere a compromessi riduttivi ma rilanciando visioni capaci di spingere la discussione verso soluzioni innovative (Gary Hack).
All’incontro/scontro tra atteggiamenti eterogenei si deve la continua “reinvenzione” del linguaggio ma anche la “invenzione” dei temi di progetto che spesso, sulla scia dei maestri quali Peter Smithson, sapevano ritrovare in spazi interstiziali o residuali la chiave volta per i progetti di recupero assegnati dalla committenza (A. Gobbi) senza tradire e anzi valorizzando le strutture identitarie dei luoghi. Attraverso una lettura “aperta” del territorio “che integrava il passato in tutta la sua complessità e che, attenta al presente, visitava il futuro attraverso il progetto”, si accoglievano le esigenze contemporanee espresse dalle comunità, coinvolte attraverso il dibattito, nella convinzione che “l’architettura non può essere fatta senza gli altri” (Raùl Pastrana e Marina Raggi) e risponde a una natura processuale (Di Mambro).
La descrizione sintetica ma precisa di alcuni casi studio affrontati nel primo ciclo di vita degli ILAUD rende palese quanto testimoniato dai contributi teorici. La concretezza delle richieste formali e circostanziate da parte degli Enti Istituzionali a confronto con temi di architettura lungimiranti e aperti, emersi dal discernimento dei luoghi attraverso le analisi, mostra ancora oggi quanto possa essere proficua per le comunità la collaborazione delle Università nella risoluzione propositiva delle problematiche territoriali.
La multiscalarità degli approcci e la interdisciplinarità delle soluzioni è evocata sin dai nomi dei casi studio che richiamano temi che saranno di gran moda negli anni successivi e straordinariamente attuali oggi: Reclamation plan for the Pré District in Genoa; Reclamation plan for the Breda Works in Pistoia; ILAUD in Santa Maria della Scala; ILAUD and the Lagoon of Venice.
Intrigante ma non esaustivo l’apparato iconografico che illustra la coesistenza di indagini e verifiche a scale differenti e l’utilizzo di diverse tecniche di rappresentazione di volta in volta strumentali a mettere a fuoco obiettivi specifici.
La seconda sezione indaga le questioni caratterizzanti l’esperienza degli ILAUD che hanno confermato la cifra distintiva anche nel secondo ciclo di vita dei laboratori oltre che influenzato esperienze didattiche successive.
La figura dell’Architetto era caricata di un ruolo sociale che si esplicava nel laboratorio “collaborativo” teso a riconoscere e ridisegnare un “Paesaggio Umano”, ricorda Wallace Chang Ping Hung, che illustra i due passaggi chiave dell’attività, corrispondenti a punti di vista complementari: “la ricerca-progetto usata per costruire una struttura conoscitiva ed ancorare una molteplicità di problemi”; il “progetto soluzione, usato per rivelare scenari delle prospettive scelte e per riflettere sui potenziali e seri problemi dei luoghi di verifica”.
La testimonianza di Hidenobu Jinnai conferma la validità del modus operandi ILAUD anche nei confronti di culture non occidentali che affrontano problemi simili pur se diversi materiali e linguaggi costruiscono i paesaggi identitari: è il caso del Giappone in cui, più che le pietre, sono la ricca varietà della topografia e della vegetazione a tessere la trama che organizza le relazioni tra la struttura urbana, l’ambiente naturale e gli spazi pubblici.
Se Mancuso si sofferma sul concetto di “riuso” inteso non come restauro circoscritto ma come possibilità di reinterpretare intere parti urbane nelle loro relazioni contestuali, grazie alla ricerca dei “codici genetici” evocati da Daniele Pini, A.G.K. Menon ritorna sulla centralità del “learning by doing” riportando l’attenzione alla principale caratteristica dei laboratori ILAUD: la necessità di spendere del tempo nel luogo del progetto per poter accedere ad una serendipity della ricerca.
La terza sezione è dedicata al secondo ciclo dei Laboratori, rifondati successivamente alla morte di De Carlo. I luoghi di questi progetti – Urbino, Cina, Curiba in Brasile, Jericho, Ferrara, Kanazawa – narrano di una internazionalizzazione sempre più spinta, attraverso la quale si verifica la validità dell’approccio ILAUD a confronto con un mondo che cambia e tuttavia saldo nelle proprie radici. Le sempre più pressanti questioni ambientali e di disparità sociale richiedono con forza soluzioni contestualizzate più che standardizzate e l’atteggiamento ILAUD svela, nella capacità di analisi complesse e prefigurazioni immediate tutta la sua forza.
Una “movable frontier” dirà Ceccarelli nel saggio conclusivo che affida al coraggio di saper cambiare la possibilità di sopravvivenza degli ILAUD. Nella necessità di assumere come architetti un ruolo propositivo alle questioni emergenti e consapevole di rapportarsi a un pubblico di studenti educati secondo itinerari sempre più specialistici e male integrati, Ceccarelli propone piccoli workshop per testare un nuovo posizionamento della frontiera ILAUD.
Nell’insieme il libro corale riesce a superare la vena celebrativa per affrontare con decisione la questione che attraversa lo sviluppo del volume: il senso dell’ILAUD come strumento di ricerca collettiva e intergenerazionale per la società civile.
La “movable frontier” citata nel sottotitolo e spiegata nel saggio conclusivo, a fine lettura emerge come un imperativo e risuona come chiamata alle armi rispetto alla necessità di proposte didattiche non improvvisate, non necessariamente brevi, non per forza “a distanza”, non obbligatoriamente urlate sul web e locandine… ma capaci di generare scenari utili.
Il volume, letto nel tempo del coronavirus, sembra esaltare l’utilità di una presenza e permanenza fisica di un dibattito nei territori che sappia declinarsi in diversi tempi o fasi avvalendosi degli avanzamenti della realtà virtuale senza tuttavia soccombervi.
Nella difficoltà di immaginare, in questo specifico tempo di sospensione forzata, la precisa posizione della frontiera ILAUD, risuona con forza l’esclamazione di Giancarlo De Carlo, riportata nel libro, che rivolgendosi a Fernando Ramos Galino, disse: “Fernando, un architetto deve essere capace di fermarsi ogni tanto, di riposare e di ascoltare l’erba che cresce”.