Ci eravamo messi in tre a fare quello che era solito fare all’università: le dispense. Perché di questo si tratta nel volume pubblicato dalla casa editrice Franco Angeli (su iniziativa del Polo Territoriale di Mantova del Politecnico di Milano), che raccoglie le lezioni di Paolo Portoghesi e Virgilio Vercelloni nell’anno accademico 1970-71 della Facoltà di architettura milanese. Per chi scrive, recensirlo significa quindi compiere un salto indietro al periodo dello studentato universitario e fornire da tale distanza temporale una testimonianza diretta su come sono nati quei testi.
Cinquant’anni fa Milano viveva l’onda lunga del Sessantotto nei fermenti che agitavano le sedi universitarie, diventate luoghi di discussione e di elaborazione politica. Uno di quei luoghi era la Facoltà di architettura, dove più che altrove sembrava avverarsi la profezia nietzschiana del caos (ci vuole un gran caos perché torni a danzare una stella). Nel clima generale della “contestazione studentesca” aveva infatti preso corpo, a partire dall’interno del mondo universitario, l’iniziativa riformista dell’insegnamento dell’architettura tesa a superare il combinato meccanico di discipline “umanistiche” e “matematiche” che datava dall’origine della Facoltà.
Erede della scissione positivista tra classico e scientifico – di cui i licei erano la versione scolastica – il corso quinquennale di architettura del Politecnico era allora suddiviso in un biennio (propedeutico) e in un triennio. Ma la suddivisione finiva per essere anche un meccanismo selettivo che impediva l’accesso al livello superiore se non si erano superati tutti gli esami del biennio. Compresi quelli delle materie “scientifiche”, più difficili da superare per la connaturata rigidità didattica di quegli insegnamenti (gli stessi di ingegneria). Si trattava in realtà di un catenaccio.
Struttura portante dell’insegnamento politecnico erano i corsi monodisciplinari, nei quali si impartivano lezioni ex cathedra per lo più teoriche. Verosimilmente, il sistema basato sull’accumulo nozionistico funzionava per la facoltà di ingegneria, mentre risultava poco confacente alla facoltà di architettura, dove la conoscenza era concepita fin dall’epoca di Vitruvio come ramificazione e intreccio dei saperi. Seguendo tale linea di pensiero, la parte del corpo docente cresciuta nello spirito del Movimento Moderno chiedeva di rivedere l’intera organizzazione didattica dando maggior peso alle discipline del progetto. Anche i contenuti avrebbero dovuto riguardare problematiche reali dell’architettura e della città, da sviluppare in gruppi di ricerca formati da studenti e docenti. La formula era inedita, e per questo si scontrava con la diffidenza generale.
L’idea di superare le gabbie disciplinari ponendo al centro dell’insegnamento il progetto di architettura derivava in parte dalla tradizione dell’atelier, alla quale si erano uniformati gli architetti moderni: quelli che durante il periodo fascista si erano visti negare l’accesso all’insegnamento universitario perché portatori di un’idea di architettura contraria alle scelte stilistiche del regime e che adesso, nel rinnovato clima repubblicano, erano diventati i nostri professori. Erano anche professionisti di valore, presto entrati nella storia dell’architettura contemporanea. Ma non bastò la loro autorevolezza culturale a convincere gli organismi dirigenti del Politecnico della necessità di mutare impostazione, sebbene fosse venuta dallo stesso Ministero dell’Istruzione l’autorizzazione a svolgere una “cauta sperimentazione” in tal senso, riconoscendo alla Facoltà di architettura il diritto di difendere la tradizione libertaria dell’università.

Foto: Marco Introini.

Veramente, per risultare efficace l’esperimento non poteva essere troppo “cauto”, come ricorda Portoghesi nell’introduzione al volume, riandando con affettuosa memoria alle posizioni assunte in proposito dal consiglio di facoltà da lui presieduto. Era infatti evidente che a una nuova impostazione didattica dovesse corrispondere un nuovo criterio di valutazione dei risultati, poiché non si trattava più dello studente singolo che si presentava all’esame per prendere un voto, ma di gruppi di studenti che chiedevano un giudizio collettivo sul loro operato. Cosa che l’ala conservatrice del Politecnico non voleva assolutamente accettare, vedendo così venir meno il più usuale strumento di verifica dell’apprendimento.
Per altro verso, la Facoltà di architettura ambiva a svolgere un ruolo propulsivo in sintonia con le istanze che stavano fuori dalle aule universitarie, riportando al proprio interno i problemi cogenti della casa, delle periferie e della crescita urbana, che stavano assumendo un’importanza crescente nel destino della città. Dentro questa visione positiva della didattica si collocava anche il modo di intendere l’insegnamento della Storia dell’architettura da parte di Portoghesi e dei docenti afferenti all’Istituto di Umanistica (tra cui Vercelloni), interessati a porre in relazione il passato con le tematiche del presente.
Tra luci e ombre la sperimentazione ebbe dunque inizio, coinvolgendo in pieno gli studenti, consapevoli di essere parte attiva dell’operazione. Ho ancora ben presente l’impressione che fecero le lezioni di Portoghesi, giovane professore appena giunto da Roma per ricoprire la cattedra di Storia dell’architettura al Politecnico, capace di affascinare per il modo particolare di trattare una materia che a chi l’aveva studiata al liceo era sembrata più che altro una classificazione di stili e di tendenze. E nuova per l’epoca era anche la forma espositiva adottata, con proiezione di diapositive di grande formato che trasformavano le lezioni di storia dell’architettura nel teatro dell’architettura, evidenziando il significato delle stratificazioni urbane con la presa di coscienza del fatto che gli edifici del passato non erano sopravvivenze mute di tempi lontani, ma presenze vive nella dialettica della città attuale. Si realizzava così quella visione effettuale dell’architettura come “eterno presente” di cui aveva parlato Sigfried Giedion, storico del Movimento Moderno. E cambiava di conseguenza il valore formativo della conoscenza storica.
Il punto più alto fu raggiunto nei primi anni Settanta con il corso di storia sdoppiato tra due professori che parlavano la stessa lingua da punti di vista complementari. Parafrasando il modello plutarchiano delle “Vite parallele”, Portoghesi e Vercelloni si avvicendavano settimanalmente in lezioni che univano all’analisi di sistemi complessi la lettura critica di architetture che andavano dall’antichità all’avanguardia pop. Per avere un’idea del carattere straordinario di quell’offerta didattica e della vastità degli argomenti trattati basta scorrere i titoli della presente pubblicazione: “Verona medioevale/Attività economiche e fenomeni urbani: i centri direzionali”, “I centri urbani medioevali/Le città satellite dell’Inghilterra del dopoguerra”, “Poetica del cemento armato/Tecnica e linguaggio del Gotico”, “Le città ideali del Rinascimento / Utopie urbane contemporanee”, “Il Brutalismo / Il Manierismo”, “Nuove tecnologie / La rivoluzione dell’arco nel Bacino Mediterraneo”, “L’urbanistica e gli standard / I servizi nella città borghese: Milano 1860-85”, “Architettura e urbanistica romana / Architettura e urbanistica del Neocolonialismo”, “Il condizionamento storico-geografico dell’architettura”. A questi si aggiungono le letture monografiche dei Maestri, trattati singolarmente, come nel caso di Le Corbusier e di Kenzo Tange, o per comparazione: “Mies van der Rohe negli Usa / Il sistema templare nell’architettura antica”, “Frank Lloyd Wright e la poetica dello spazio / Borromini”, “Alvar Aalto / Balthasar Neumanm”, “Louis Kahn / Il Neoclassicismo”, “Palladio / La tipologia nella cultura architettonica contemporanea”, “Il ricorso alla tradizione nell’architettura contemporanea in Italia / La tradizione classica nell’architettura brunelleschiana”.
Il successo di ascolto fu notevole, testimoniato dalla presenza massiccia degli studenti che riempivano l’aula A, poi l’aula III, infine un’aula del Trifoglio: spazi sempre più grandi per lezioni affollate oltre misura. Di quell’insegnamento alternativo non esistevano però testi di riferimento equivalenti. È stata tale mancanza a far nascere l’idea di conservare quel patrimonio cognitivo in una forma più completa e duratura degli appunti presi durante le lezioni. Come ho detto all’inizio, ci eravamo messi in tre a cercare di risolvere il problema: il sottoscritto, Giovanni Denti e Maria Pia Belski. Insieme abbiamo dato seguito al proposito di registrare, trascrivere e stampare le lezioni di storia da distribuire sotto forma di dispense, impresa non priva di difficoltà pratiche, mancando allora gli strumenti che oggi la renderebbero più facile. A ripensarci adesso, sembra di parlare di un’azione pionieristica condotta in un tempo remoto in maniera assolutamente artigianale.
Usavamo un portatile Grundig a cassette per la registrazione, cui seguiva la fase laboriosa della trascrizione e della correzione, poi la battitura a macchina dei testi su matrici, infine la stampa a inchiostro tipografico su carta da ciclostile. Per le ultime fasi potevamo usare l’apparecchiatura messa a disposizione dallo zio di Giovanni, Roberto Denti (futuro creatore della “Libreria dei ragazzi” in via Tommaso Grossi a Milano), il quale acconsentì anche all’uso di una stanza dei suoi uffici di piazza Cavour come base operativa. Mi sono permesso di ricordare questi aspetti “autobiografici” non solo per dare la misura del lavoro che ci avvolse nei mesi di preparazione di quei testi che non immaginavamo certo potessero trasformarsi, a mezzo secolo di distanza, in una vera pubblicazione a stampa, ma anche per dare uno spaccato della vita che si conduceva nella Facoltà di architettura e della vivacità che caratterizzava le relazioni tra docenti e studenti, cosa che oggi non esiste più in modo altrettanto partecipato.

Tutto questo si calava in un contesto generale attraversato da forti tensioni che investivano l’ambiente universitario e la stessa città, tra assemblee, manifestazioni studentesche e cariche della polizia, come le cronache dell’epoca hanno tramandato. Di quel periodo contrastato è rimasto una sorta di memorial riproducente il dipinto “Guernica” di Picasso sul muro centrale dell’atrio di Architettura, realizzato in proporzioni vicine all’originale con l’aiuto di studenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera durante una occupazione. Del ciclo didattico sviluppato in facoltà è invece rimasto fino in fondo il ricordo del primato della cultura sulle contingenze.
Come in tutte le storie senza lieto fine, l’epilogo si è consumato per circostanze indotte nel giugno 1971. Il casus belli è stato la nota vicenda degli sfollati di via Tibaldi, provvisoriamente ospitati nel locale d’ingresso della facoltà, oggi destinato a biblioteca di architettura. Fu una scelta imposta dalla situazione di emergenza che il consiglio di facoltà decise di fare per ragioni umanitarie. Dovendo però giustificare l’uso anomalo degli spazi della facoltà, fu escogitato uno stratagemma in linea con la logica universitaria: fintantoché la didattica non si fosse interrotta, si poteva tollerare la presenza di persone diverse dagli studenti in base all’antico principio della pubblicità delle lezioni. Così, si andò avanti per un po’ con la didattica a ciclo continuo, conclusa da una lezione di Portoghesi sul Barocco tenuta a studenti e sfollati nell’ultima notte di quella occupazione eterogenea. Alla fine, lo stratagemma non funzionò e la facoltà venne tosto sgomberata dalla polizia. Pesanti le conseguenze: il consiglio di facoltà fu sospeso e deferito alla magistratura, mentre al governo dell’istituzione si insediò un triumvirato di professori provenienti da altre sedi con il compito di restaurare l’ordine, forse anche di annullare l’anno accademico e chiudere la facoltà. Nulla di tutto questo avvenne e la vicenda si concluse tempo dopo con il reintegro del consiglio legittimo. La situazione era però cambiata e di sperimentazione non si sarebbe più parlato. In conclusione, sono state le difficoltà politiche del momento a porre termine alla “sperimentazione”, e con essa alla nostra attività di editori in erba.
Nell’introduzione al volume della Franco Angeli il curatore, Marco Biraghi, ha ricostruito la ricaduta che ebbero gli eventi esterni sull’andamento della didattica nell’anno accademico 1970-71. Dato che la facoltà di architettura aveva rivendicato la propria agibilità politica come luogo di attività studentesca, al pari di altre sedi universitarie, i vuoti registrati nella sequenza delle lezioni di storia sarebbero da mettere in relazione con i momenti di grande tensione verificatisi a Milano. In realtà, le lezioni di storia e l’attività didattica nel complesso mantennero un ritmo abbastanza regolare secondo il calendario accademico, anche perché occorreva garantire il più possibile il rispetto degli obblighi di legge sul funzionamento della facoltà per non offrire pretesti a interventi disciplinari. Questa affermazione trova conferma nel fatto che, dopo la pubblicazione della raccolta di cui stiamo parlando, è stato ritrovato un altro gruppo di lezioni di Portoghesi e Vercelloni che sarà oggetto di una prossima pubblicazione, con la quale si potrà precisare meglio il quadro cronologico.
Da ultimo, resta da chiedersi qual è oggi l’utilità di questa iniziativa editoriale. Non credo che occorra dire molto al riguardo: quelle lezioni sono un valore in sé, non solo perché danno la misura del livello qualitativo della didattica universitaria in anni ormai lontani, ma come epitome architettonica la cui bellezza rimane nel tempo, offrendo un valido compendio alle nuove generazioni di studenti. Invece, per ciò che attiene al significato interno di quell’esperimento didattico, vorrei concludere, per il senso di attualità che ancora rivestono, con le parole di Wilhelm von Humboldt (fondatore dell’università di Berlino nel 1810), riportate da Portoghesi nella sua introduzione, che così riassumo: “lo studente non è più colui che apprende passivamente, bensì colui che compie ricerche, mentre il professore guida tali ricerche aiutandolo e sostenendolo; l’aspetto essenziale è che si vive una serie di anni per la scienza, in comunità con persone di eguale età e degli stessi interessi.”