“Dove l’acqua si è sposata alla pietra”
(Benjamin Britten, “Morte a Venezia”, 1972)

Il Padiglione come tema architettonico della magnanimità principesca
Tavoli da disegno e diplomazia dall’Arca della Memoria. Nel 1956 il mondo diplomatico nell’area Scandinava è in fermento in vista della definizione di un bando di concorso che porterà per la prima volta collegialmente i paesi nordici a partecipare alla XXXI Biennale di Venezia.
Le tormentate vicende degli accordi e dei contrasti che condurranno alla definizione del Bando e alla inclusione / esclusione tra i tre paesi Scandinavi, Norvegia, Svezia e Danimarca, sono puntigliosamente narrate e documentate in una assai pregevole pubblicazione curata dagli autori Mari Lending ed Erik Langdaalen, due storici la cui attività fa capo alla Oslo School of Architecture an Design. Dopo l’assegnazione ai paesi Nordici dell’area ai Giardini di Castello a Venezia, da parte del Comitato della Biennale, si tratterà di tessere la rete di relazioni che lega architetto e imprese e fiduciari. In questo caso l’architetto italo-danese Fredrick Fogh, che la distanza e la mancanza di una lingua franca, quale oggi è l’inglese, renderanno particolarmente laboriosa e irta di ostacoli sia formali che materiali.

Sverre Fehn, “Pavillon nordique à Venise,” competition drawings, December 1958 ©Nasjonalmuseet, Oslo.

Sverre Fehn, from a series of site photographs, September 1958 ©Nasjonalmuseet, Oslo.

Proprio a partire da queste difficoltà, tra il 1960 e il 1962, Sverre Fehn, un giovane architetto trentottenne, oltre ad una personale interpretazione del luogo (ricordiamolo creato da Napoleone dopo la soppressione e la demolizione di alcuni conventi riutilizzati per consolidare un terreno di per sé paludoso), porterà avanti la sperimentazione di un’opera d’arte essenziale, concreta e, soprattutto, contemporanea. Allontanandosi dal razionalismo di Le Corbusier che la sua esperienza parigina presso lo studio di Jean Prouvè gli aveva fatto conoscere e che in parte l’aveva formato.
Sarà lo stesso Sverre Fehn (1924-2009), nell’occasione del conferimento del Priztker Prize nel 1997, a descrivere il percorso che lo portò a ideare e completare il progetto del Padiglione veneziano e da lì a continuare con i progetti successivi: “I have never thought of myself as modern, but I did absorb the anti-monumental and the pictorial world of Le Corbusier, as well as the functionalism of the small villages of North Africa. You might say I came of age in the shadow of modernism. I always thought I was running away from traditional Norwegian architecture, but I soon realized that I was operating within its context. How I interpret the site of a project, the light, and the building materials have a strong relationship to my origins” (Sverre Fehn, 1997 Laureate, The Pritzker Architecture Prize).

Fredrik Fogh, drawing, October 28, 1969, shows a new version of the fiberglass roofing. Scale 1:1. Courtesy of Christian and Isabella Fogh.

Un tetto luminoso, un pavimento scuro, strutture crociate sovrapposte in cemento armato a sezione costante, un solo appoggio

In una bellissima fotografia di Paolo Monti del 1962 si coglie l’atmosfera dell’opera appena compiuta con le lastre di marmo nero provenienti dalla Scandinavia, allusive a una continuità con l’acqua della Laguna e la disposizione all’aria aperta delle opere d’arte (foto: L’immagine proviene dal Fondo Paolo Monti di proprietà della BEIC – Biblioteca Europea di Informazione e Cultura e situato nel Civico Archivio Fotografico di Milano. Licenza Wikimedia Commons).

Qui, forse, per la prima volta, in modo compiuto, si cattura lo spirito del luogo, come sarà inteso e sviluppato da Sverre Fehn anche nelle opere successive. Qui si manifesta in modo concreto e tangibile come: luce, aria e materia si fanno architettura attraverso l’architettura, nella trasposizione a canone seriale musicale. La contaminazione tra la razionalità cartesiana degli elementi e il numero limitato degli alberi, ingabbiati in una logica di pieni e vuoti, che si vorrebbe cromatica, programmatica e infinita, è prefigurata dai bellissimi disegni prospettici a matita realizzati per il concorso, la realizzazione di uno spazio aperto/coperto/protetto, inclusivo e illimitato. Anche se preliminari, i disegni restituiscono in modo sorprendente e delicato la tridimensionalità di un’idea che è insieme compositiva e costruttiva. L’Architettura è la Struttura, la Struttura è l’Architettura, in un modo non dissimile dal Tempio greco o dai progetti di Mies van der Rohe per l’IIT.

Fehn’s reworked project, dated May 10, 1959. Plan in scale 1:100 ©Nasjonalmuseet, Oslo.

The original black floor and stair, clad in black Norwegian slate. Photo: Ferruzzi, June 1962. @Nasjonalmuseet, Oslo.

La tradizione elvetica dell’arte libraria
La felice combinazione di tradizione libraria ed edizioni d’arte, portata avanti dall’editore Lars Müller di Zurigo, si coniuga alla approfondita ricerca su fonti inedite d’archivio dei due storici norvegesi Mari Lending ed Erik Langdalen, associata in corso d’opera, ai commenti di molti altri ricercatori ispirati e competenti, invitati a commentare, descrivere e sperimentare la qualità dello spazio e il suo permanere nel corso del tempo. Il connubio ha prodotto nell’occasione un’opera libraria eccellente, nel solco di una tradizione quale quella elvetica, ricca di esempi ed edizioni sia d’arte grafica che industriale. La stampa e la sobrietà dei bianchi e neri splendenti, delle mezzetinte colorate, trasmettono al lettore un particolare piacere sia tattile che visivo coerente con la qualità stessa del progetto presentato e commentato.