“[…] progettare, pianificare, disegnare non dovrà tradursi per l’architetto nella creazione di forme prive di senso, determinate dalla moda o da qualche altro tipo di capriccio. Le forme che egli creerà dovranno innanzitutto risultare da un sapiente equilibrio tra la sua visione personale e la circostanza in cui si trova, che egli dovrà conoscere così intimamente da non poter più distinguere la conoscenza dall’essere”
Dell’organizzazione dello spazio, Fernando Távora
Dell’organizzazione dello spazio, di Fernando Távora (1923-2005), la cui traduzione in lingua italiana è stata curata da Carlotta Torricelli, è uscito nelle librerie il 20 maggio 2021. Edita da nottetempo presso la promettente collana saggi | architettura ideata e curata da Carlo Gandolfi, è un piccolo gioiello di 192 pagine. Scritto nel 1962 e indirizzato a chi avrebbe intrapreso gli studi nell’arte del costruire, aveva come obiettivo l’ottenimento della cattedra presso la Escola Superior de Belas-Artes do Porto.
Il Portogallo del ’62 era un paese governato da un regime clerico-fascista, schiacciato tra asfissia autarchica e atlantismo NATO, tra miseria diffusa e repressione anticomunista. Un Portogallo dove anche l’architettura era regimentata da uno stile di governo denominato – non senza una certa ironia – Português Suave, una sorta di pastiche storicista, tra grottesco tragicomico e kitsch reazionario. Per António de Oliveira Salazar, le istanze promulgate dal Movimento moderno rappresentavano un pericolo, in quanto espressioni di internazionalismo.
È difficile immaginare, oggi, quanta amarezza, quanta frustrata voglia di rivoluzione dovesse sommergere quella generazione — mitica e mitologica — degli architetti di Oporto durante l’Estado Novo (1926-1974). Uno studente o un architetto, almeno fino alla Rivoluzione dei garofani (1974) vedeva raramente una pubblicazione estera, per non parlare di quelle dell’Italia progressista post-1945. Da organização do espaço va letto immedesimandosi in un quarantenne che scriveva in quel contesto, con la peculiarità di essere stato tra i pochi ad aver goduto di una seppur limitata libertà di movimento fuori dalla cortina di ferro iberica.
Fernando Távora, Tre luoghi sacri: Delfi, Acropoli di Atene, Olimpia. Schizzo realizzato nell’ambito del corso Teoria Geral da Organização do Espaço presso la faup, lezione del 23/11/1990, 116,5 x 75,5 cm, pennarello rosso, nero e blu su rotolo di carta per lavagna. [FIMS/FT/A 00026] ©Fundação Marques da Silva, Arquivo Fernando Távora.
Già dal 1945, Távora era impegnato nello studio del “problema della casa portoghese”, delle “indagini sull’architettura popolare portoghese” (1955-60), delle tematiche dell’urbano e dell’abitare; tra congressi d’architettura in patria, i CIAM sul piano internazionale e realizzando i primi progetti di formazione: il mercato di Vila da Feira (1953); la casa a Ofir (1958); il padiglione di Quinta da Conceição (1959). Opere queste, nei quali, in alcuni casi, il grosso delle murature era realizzato in granito o con tecnologie povere, che successivamente venivano ricoperte in cemento, così da dare un’impressione di “béton armé”.
Nel 1960, Távora partecipa allo scioglimento del CIAM e aderisce al Gruppo X e nei due anni che precedono la stesura di Dell’organizzazione dello spazio, viaggia per molti mesi tra Stati Uniti, Europa e Giappone. Ma è in Italia dove Távora si reca più spesso, con ben quattro viaggi tra gli anni ’40 e ’50, e facendovi ritorno nuovamente all’inizio degli anni ’60. Italia, che permane come riferimento costante, sebbene non espressamente dichiarato, della resiliente e nascente scuola di Oporto.
Influenza che si sarebbe esplicitata nell’ambito di un lavoro iniziato quasi a ridosso della stesura di Dell’organizzazione dello spazio, e cioè i progetti per Aveiro (1963), in cui si fa evidente il riferimento alle scuole italiane: Albini, Rogers e Samonà, ma soprattutto Gardella. Con questo libro, Fernando Luís Cardoso de Meneses de Tavares e Távora “tenta una svolta importante nel suo discorso: il passaggio dalle dimensioni architettoniche dello spazio, sperimentato come progettista al tavolo da disegno e nella successiva realizzazione delle opere, ai problemi di organizzazione della città e del territorio, in cui le dimensioni socioeconomiche assumono il ruolo di strategiche variabili decisionali” — per usare le parole di Nuno Portas, nella prefazione all’edizione del 1982, anch’essa tradotta dalla Torricelli, aggiungendo a questo volume ancora più interesse.
Fernando Távora, La città spontanea e la città progettata; riferimenti storici. Chandigarh, Barcelona, Angkor Wat, schizzo realizzato nell’ambito del corso Teoria Geral da Organização do Espaço presso la faup, lezione dell’08/03/1991, 113 x 75,5 cm, pennarello rosso, nero e blu su rotolo di carta per lavagna [FIMS/FT/A 00035] ©Fundação Marques da Silva, Arquivo Fernando Távora.
Di questi aspetti, e di molto altro, parla anche Carlotta Torricelli nel suo saggio introduttivo “L’incontro tra la vita e le forme in architettura. Attualità del pensiero di Távora” che contribuisce in maniera sostanziale alla completezza della pubblicazione. Un volume composto poi da quattro parti principali: “Dimensioni, relazioni e caratteristiche dello spazio organizzato”; “L’uomo contemporaneo e l’organizzazione del suo spazio”; “L’organizzazione dello spazio portoghese contemporaneo”; “Intorno al ruolo dell’architetto”. Capitoli nei quali il lettore viene sommerso in veri e propri ammaestramenti, quelli, appunto, di un Maestro sul nascere. E, come nei casi dei grandi testi, con un linguaggio naturale e modesto, quello di un uomo di mestiere. In epoche successive, questa piccola opera diventò un classico dell’architettura lusitana, anche se troppo poco noto fuori dai confini iberici. La forma architettonica vi è presentata quasi fosse sistema animato che germoglia dai problemi posti dalla realtà concreta, dalle opportunità poste dei bisogni oggettivi, dalle raffigurazioni della collettività in un momento dato della storia.
Carlotta Torricelli ci regala la traduzione di un classico ancora attuale, che non solo raccomanderei a qualsiasi architetto o cittadino interessati alle questioni dell’abitare e della città, ma soprattutto come lettura ai giovani nell’età della formazione architettonica. L’edizione italiana di questo testo, che potremmo quasi definire un trattato, costituisce anche una preziosa documentazione per gli storici, teorici o investigatori che non conoscano la lingua di Camões e vogliano confrontarsi con una fonte primaria prodotta in circostanze determinanti per l’architettura portoghese odierna.
Circostanze che a partire da quel periodo si sarebbero trasformate in un crocicchio di cammini generatori di quella che oggi è l’eroica e mitizzata Scuola di Oporto. Scuola di tendenza senza tendenze, moderna in modo postmoderno, e le cui manifestazioni e configurazioni formali si sarebbero articolate intorno alle figure di Álvaro Siza Vieira ed Eduardo Souto de Moura, ma anche intorno a quelle di maestri meno noti, come Francisco Barata Fernandes (1950-2018): alcuni tra i tanti eredi, allievi e compagni di Fernando Távora.
Fernando Távora, Pianta e sezione schematica della città di Porto. Schizzo realizzato nell’ambito del corso Teoria Geral da Organização do Espaço presso la faup, lezione del 15/03/1991, 114,5 x 75 cm, pennarello rosso, nero e blu su rotolo di carta per lavagna [FIMS/FT/A 00036] ©Fundação Marques da Silva, Arquivo Fernando Távora.
Quando arrivai a Oporto per l’Erasmus, nel 2001, attraversando una Spagna vuota, in strade a una corsia, trovai un Portogallo in crisi economica e identitaria, tra tradimento dei valori rivoluzionari e scioglimento nell’acido neoliberista. Lasciavo un’Italia sotto choc dopo il trauma del G8 di Genova e trovavo una Escola sempre più borghese e manierista, ma nella quale il corpo docenti resisteva, cosciente del proprio ruolo, fedele agli ideali di Carlos Ramos e di Fernando Tàvora.
Mentre in Italia si cambiava ordinamento ogni anno — in quell’ansia da nuovismo che caratterizza il paese dagli anni ’90 — il curriculum della FAUP si manteneva sostanzialmente immutato dall’epoca in cui le sue basi erano state poste dallo stesso Tàvora, e conservava quello spirito di ricostruzione — potremmo dire morale — della disciplina e del paese. E se Siza rappresentava la divinità dei pellegrini della FAUP, Tàvora era riferimento imprescindibile e costante per i docenti e la vecchia guardia.
Da organização do espaço era, quanto a lui, il “testo sacro” nel quale ritrovare i fondamenti etici di ciò che ancora erano, o, perlomeno, cercavano di continuare a essere. Dal 1982, il libro era anche lettura obbligatoria all’interno del corso — anch’esso obbligatorio — di Teoria Geral da Organização do Espaço. La Faculdade lo stampava — e lo stampa tuttora — quasi fosse un manuale. Fu così che iniziai a pensare all’elaborazione della mia tesi di laurea, che non volevo fosse progettuale, bensì teorica e mi recai proprio da Fernando Tàvora a chiedere se fosse disponibile a orientarmi in una ricerca sui progetti di Muzio per il centro di Oporto, di cui rimangono solo gli sventramenti. Accettò immediatamente, con entusiasmo e gentilezza sconcertanti. Seguirono diversi incontri sull’evoluzione del lavoro, anche se sentivo che la vecchiaia pesava su quel grande uomo. Poco dopo si ammalò, e dovetti abbandonare il progetto di ricerca. Realizzai, infine, una tesi sulle influenze italiane nell’architettura contemporanea portoghese, tema che nacque proprio da quella lunga chiacchierata con il Maestro. Nel secondo anno di permanenza, lavorai presso il CRUARB (Comissariado para a Renovação Urbana da Área de Ribeira/Barredo), ente nato per la riqualificazione del poverissimo e degradato centro storico di Oporto. Sorto in seno alla svolta rivoluzionaria del 1974, fu influenzato dalle politiche dei comuni amministrati dal PCI in Italia — come il caso di Bologna — e ebbe il grande merito di interrompere la sequenza di piani che, fino a quel momento, aveva promosso ampie demolizioni del tessuto urbano. La sua fondazione fu soprattutto conseguenza diretta del pensiero espresso da Távora con O estudo de renovação urbana do Barredo (1969). E, dunque, anche per il lavoro dei professionisti coinvolti in questo ente, Távora e il suo piccolo trattato erano riferimento costante.
Due decadi son passate, e l’Italia, da allora, come il Portogallo degli anni del salazarismo, sembra tormentata dall’impossibilità di qualsiasi cambiamento dello stato presente delle cose. E l’architettura, quanto a essa, resta immobile, nemmeno più in attesa di una rivoluzione. Forse, come seppero fare i tanti della geração de transigentes, questa nostra architettura dell’oggi, avrebbe bisogno di dedicarsi al “noi”, piuttosto che all’ “io”, avrebbe bisogno di dotarsi di sempre più rigore scientifico, cittadinanza, militanza e coraggio politico, come coraggioso fu Távora, in piena dittatura, nello scrivere:
“Anche le circostanze delle forme che organizzano lo spazio, dunque, si costituiscono come circostanze dell’organizzazione dello spazio; oltre alle forme preesistenti – naturali o umane, entrambe già di numero infinito – rientrano dunque fattori molto vari, come il pensiero scientifico o la religione, l’economia o la sensibilità, la politica o la filosofia, con la difficoltà di distinguere l’importanza degli uni sugli altri e, anche ove possibile, nella certezza che, in misura differente, tutti stiano a fondamento di una forma”.