Umberto Riva, ritratto (dettaglio) da Nicolò Parsenziani.
Scrivere per me un commento e la recensione di questo interessante libro sull’architettura del mio maestro Umberto Riva è entusiasmante ed emozionante al tempo stesso.
Nel testo del volume, scritto da Gabriele Neri, puntuale e approfondito, ho potuto attraversare le mie passioni e, inoltre, ripercorrere tutti gli anni passati della mia formazione, come se, nel suo studio di Milano, stessi ancora disegnando sulle “veline” la sua idea di spazio.
Il tempo in cui si consuma il progetto sino alla realizzazione dell’opera in Riva è un’avventura straordinaria, perché parte da intuizioni di spazio e di forma sino ad approdare alla fisicità dell’architettura, attraverso un uso sapiente dei materiali.
Sì, perché la sostanza e la grandezza insita nell’opera di questo coltissimo architetto risiedono nella sintesi tra lo spazio lecorbuseriano e la funzionalità dei maestri degli anni ’50, i Franco Albini, i Carlo Scarpa e i BBPR, che nei musei e nei loro allestimenti realizzati hanno fissato un’idea “minimal” di architettura di interni.
La forma che viene fissata nel dipinto si ritrova arricchita della sostanza sapiente del materiale in spazio e diventa ambiente. L’ambiente in cui tutti noi viviamo.
In questo libro, molto puntualmente, ritrovo questa essenza materica dell’architettura di Umberto Riva, quasi come se lui fosse l’ultimo membro del Movimento moderno.
Casa Insinga, Milano, 1987-89. Foto di Francesco Radino.
Ora, addentrandomi tra le pieghe del testo di Neri, ritrovo i lineamenti del contesto con cui Riva dialoga, sempre con il suo formale punto di vista.
“La semplicità”, mi diceva Umberto, “è un raggiungimento, Paola. Ricordati, non è mai un punto di partenza”. Quando la forma raggiunge la vita degli altri, le loro abitudini, allora lì si ferma l’arte e l’architettura.
Sin dal principio, quindi, Neri focalizza la prima centralità, quella che riguarda la forma geometrica nel progetto di Umberto Riva: “Avvicinandoci un po’ di più alla fenomenologia degli interni progettati da Riva, si possono poi scorgere alcuni temi e alcune figure ricorrenti. Dalla metà degli anni Sessanta la propensione a livello planimetrico per le linee spezzate, le asimmetrie, gli angoli non retti e le disgiunzioni tra le superfici progettate rappresenta, ad esempio, una costante che troviamo quasi ostinatamente: un’attitudine che – come ha ripetuto l’architetto in molte occasioni – deriva da un’idiosincrasia per la simmetria e la staticità, da un’attrazione magnetica verso lo spazio instabile e precario, dall’impossibilità di chiudere e concludere la forma. Diffidente verso la quiete fissa del mondo classico, Riva ha infatti guardato sempre all’espressionismo mitteleuropeo, con la sua spigolosità aspra e tagliente”.
Casa Righi, Milano, 2002-03. Foto di Andrea Martiradonna.
Casa Righi, Milano, 2002-03. Foto di Andrea Martiradonna.
La seconda questione riguarda il dettaglio che consegue la forma. Egli scrive e ricordo ancora le sue parole in studio: “A me interessa dare nobiltà al disegno di un interno” (…) “fare in modo che una finestra, una porta, un percorso non siano mai dati per scontati (…) Nobiltà, per me, è questo: non-ovvietà, attenzione al dettaglio, economia intelligente”.
Questo è l’insegnamento di Carlo Scarpa: “Io venivo dalla scuola milanese di Albini e Gardella; scoprire Scarpa è stata un’emozione. La sua cultura figurativa mi era più congeniale. Ho sempre pensato che la scuola milanese peccasse di eleganza, che esprimesse troppo una certa distinzione alto borghese. Scarpa, invece, mi ha insegnato l’intensità dell’architettura. Anche la sofferenza”.
Ma il mio maestro, come ben specifica l’autore di questo interessante libro, compone musica e ritmo spaziale attraverso luce, colore, forma, materia, che sono gli elementi necessari di questa composizione: “giustapponendo e integrando livelli diversi – i percorsi, gli elementi strutturali, la divisione planimetrica e gli alzati, gli aspetti distributivi, l’arredo, le finiture, il colore, l’illuminazione, ecc. – Riva allestisce infatti, tanto nelle case quanto nelle sale espositive, un sistema articolato a cui contribuiscono tutti gli elementi disegnati”.
Il terzo elemento è dunque la composizione.
Casa Frea, Milano, 1980-82.
Il quarto elemento dell’opera architettonica di Umberto Riva consta del rapporto con il contesto. Il luogo è un potenziale latente, e, a proposito delle straordinarie case a Stintino, Gabriele Neri scrive: “ancora dalla citazione dell’edilizia rurale del luogo, Riva trova un pretesto per inventare qualcosa di completamente nuovo, utilizzando la ‘tradizione’ non in chiave mimetica ma come stimolo progettuale”.
In tutte le sue architetture il luogo torna a essere il punto di partenza, il punto dal quale la forma prende sostanza e non viceversa.
Un incontro tra la mente colta dell’architetto che aggiunge, con leggerezza, ciò che non esisteva.
Ultimo elemento che sintetizza tutto, che tutto sublima, è la concezione dell’Architettura come opera d’arte totale: “Appare qui evidente la prossimità con la sua attività pittorica. Così come la tela impone confini finiti e dunque una misura del mondo, in queste case i muri perimetrali offrono dei suggerimenti e diventano gli interlocutori di un dialogo spesso acceso, a volte conciliante, raramente acritico. Il progetto comincia dalla contestazione degli assunti dati, o meglio dalla loro riscrittura totale, dalla valutazione delle linee e delle direzioni che possono soddisfare le necessità degli abitanti”.
La petite chambre, Palazzo dell’Arte, Milano, 2016. Vista dell’interno. Foto di Andrea Martiradonna.
La lezione di Le Corbusier, del Bauhaus, viene ricompresa, rimane per noi, come è stata per me, un elemento di attualità, forse direi di classicità.
Trovo, infatti, che il nostro contributo di architetti oggi non possa prescindere dalla conoscenza di questo grande Maestro, e il libro di Gabriele Neri contribuisce a diffondere questo importante insegnamento.
Unica possibile sostanza del nostro mestiere diventa dunque il dare forma all’ambiente in cui tutti noi viviamo, senza alterare le condizioni in cui sorge, ma assurgendo, invece, a dilatarne la poesia attraverso “la forma imperfetta e infinita” di cui ci ricorda Umberto Riva, richiamando Frank Lloyd Wright, secondo il quale “infinite sono le manifestazioni della natura”.