Al prestigioso MoMA – Museum of Modern Art di New York è stata inaugurata il 15 luglio una grande esposizione retrospettiva dedicata all’architettura jugoslava, intitolata Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980. Una mostra che raccoglie le migliori opere di architettura e di pianificazione urbanistica realizzate da alcuni progettisti jugoslavi, abitanti di uno Stato che non esiste più, ufficialmente dal 2003, ma, che, in realtà, iniziò a dissolversi nel 1980 con la morte del suo unico capo di governo (dal 1945), il maresciallo Tito.

Ivan Vitić, Apartment Building on Laginjina Street, Zagreb, Croatia, 1957–62. Perspective drawing, 1960. Tempera, pencil and ink on paper, 71 × 100 cm. Ivan Vitić Archive, Croatian Academy of Sciences and Arts.

Uno Stato molto particolare, geograficamente e politicamente situato tra Est e Ovest, formato da 6 repubbliche e 2 provincie autonome; uno Stato socialista ma anche “liberale”, nel senso che chi non era convinto restava comunque libero di lasciare il Paese.
Uno Stato che nasce dalla durissima guerra di liberazione dall’occupazione nazista, fascista e da parte di alcuni gruppi collaborazionisti autoctoni; uno Stato che nel 1948 ha saputo dire di no a Stalin e al blocco sovietico per diventare poi, nel 1956, uno dei tre stati fondatori del Movimento dei paesi non allineati.

Edvard Ravnikar, Revolution Square (today Republic Square), Ljubljana, Slovenia, 1960–74. Photo: Valentin Jeck, commissioned by The Museum of Modern Art, 2016.

E, allora, diventa praticamente impossibile quanto inevitabile, per una mostra che tratta il tema dell’architettura jugoslava in modo così completo, non affrontare anche i suoi aspetti tanto particolari (politici, culturali, economici, etnici) che contraddistinguevano la vita e l’operare in Jugoslavia nei complessivi 32 anni presi in esame.
Riccamente illustrata – attraverso un vasto e suggestivo servizio fotografico commissionato a Valentin Jeck – e documentata – con oltre 400 tra disegni, modelli, fotografie e bobine cinematografiche, provenienti da numerosi musei, archivi comunali e collezioni private – il corpus dell’esposizione risulta suddiviso in quattro sezioni:
Modernization esplora le trasformazioni di un paese, in gran parte rurale e distrutto dalla guerra, attraverso i suoi processi di ricostruzione e di urbanizzazione, di progettazione di nuove reti infrastrutturali e nuovi insediamenti (Nuova Belgrado), di modernizzazione del settore edilizio e d’un uso sempre più massiccio del cemento armato;
Global Networks indaga l’esportazione e la promozione del proprio sapere architettonico e urbanistico presso alcuni paesi africani non allineati (Nigeria), o in Europa, attraverso il padiglione nazionale all’Expo (Vjenceslav Richter, 1958), ma anche l’importazione di modelli esteri, come in occasione del grande terremoto di Skopje del 1963, con la sua successiva ricostruzione attraverso il nuovo piano generale della città disegnato da Kenzo Tange;
Everyday Life illustra le prime forme innovative di edilizia abitativa di massa e di design moderno, come mobili flessibili e innovativi (Niko Kralj, sedia pieghevole Rex del 1956) ed elettrodomestici a prezzi accessibili, nel quadro di una cultura socialista di consumo;
Identities affronta le contaminazioni stilistiche avvenute e la complessa convivenza tra la spinta universale della modernizzazione socialista e le specificità di “scuole” di architettura regionali, che hanno prodotto alcuni interessanti risultati, quali il modernismo bosniaco di Juraj Neidhardt e quello sloveno di Edvard Ravnikar, entrambi di estrazione lecorbuseriana.

Miodrag Živković, Monument to the Battle of the Sutjeska, Tjentište, Bosnia and Herzegovina, 1965–71. Photo: Valentin Jeck, commissioned by The Museum of Modern Art, 2016.

Dalla mostra emergono numerose figure di architetti jugoslavi qualificati, ma praticamente assenti dalle storie di architettura occidentali, tra i quali Juraj Neidhardt, Svetlana Kana Radević, Edvard Ravnikar, Vjenceslav Richter, Milica Šterić, Bogdan Bogdanović, Radovan Nikšić e Ninoslav Kučan, Uglješa Bogunović, Boris Krstulović, Milan Mihelič, Andrija Mutnjaković, Milorad Pantović, Svetlana Kana Radević, Ivan Vitić, Stanko Kristl, Georgi Konstantinovski, Jordan e Iskra Grabul, Janko Konstantinov e altri.
Essi certamente hanno progettato numerose e valide opere di architettura, portatrici di un certo pathos jugoslavo, ma ciononostante sorge spontanea una domanda: è esistita davvero un’Architettura che potremmo classificare come autenticamente jugoslava?
Perché quello che emerge dall’esposizione sono singole architetture, sì di qualità e realizzate da architetti jugoslavi (che oggi dovremmo suddividere tra croati, serbi, sloveni, bosniaci, montenegrini, macedoni e altre etnie), ma stilisticamente molto eterogenee, da distribuire tra l’architettura brutalista, lecorbuseriana, metabolista, espressionista, post razionalista, International Style. Dunque, non vi è stato uno stile architettonico jugoslavo, ma solo opere contaminate da diversi fattori (personali, economici, sociali, etnici) realizzate da architetti praticanti in uno stato chiamato Jugoslavia, figure di progettisti di spessore “medio-alto”, ma non per questo meno interessanti, che hanno contribuito a lasciare un segno collettivo importante nella costruzione del loro paese.

Zoran Bojović for Energoprojekt, International Trade Fair, Lagos, Nigeria, 1973–77. Plan of external traffic connections and internal circulation, 1973. Felt tip pen on tracing paper mounted on cardboard, 70 x 100 cm. Personal archive of Zoran Bojović.

Di conseguenza, possiamo affermare con certezza che:
– l’architettura jugoslava, come lo Stato, se mai è esistita, non c’è più;
– tra gli architetti che vi operarono in quel periodo storico vi erano bravi professionisti che hanno progettato e realizzato alcune importanti opere di architettura moderna;
– in Jugoslavia, nonostante tutto, vigeva una grande libertà espressiva nel campo dell’architettura, ma anche dell’arte in generale. A tal proposito, basti ricordare nel campo della pittura il movimento astrattista degli anni ’50 Exat 51 o il nutrito gruppo dei pittori naïf; i numerosi scultori (Vojin Bakić, Dušan Džamonja, Miodrag Živković, ecc) e architetti-scultori (Bogdan Bogdanović, Gradimir Medaković, ecc.), autori di monumenti commemorativi (spomenik), spesso opere di forte carattere espressivo immerse nella natura circostante.

Berislav Šerbetić and Vojin Bakić, Monument to the Uprising of the People of Kordun and Banija, Petrova Gora, Croatia, 1979–81. Exterior view. Photo: Valentin Jeck, commissioned by The Museum of Modern Art, 2016.

Una bellissima mostra – organizzata da Martino Stierli, The Philip Johnson Chief Curator of Architecture and Design, The Museum of Modern Art, e Vladimir Kulić, Associate Professor, Florida Atlantic University, con Anna Kats, Curatorial Assistant, Department of Architecture and Design, The Museum of Modern Art –, che probabilmente per lungo tempo rimarrà anche l’unica dedicata al tema dell’architettura in Jugoslavia, e che, essendo stata organizzata dal MoMA, non corre il rischio (o almeno non dovrebbe) di essere tacciata di jugo-nostalgija, anche se, poi, a tratti, il sentimento nostalgico fa la sua comparsa.
In conclusione, si ha come l’impressione che si sia voluto documentare attraverso l’architettura e la cultura jugoslava degli anni ’48-’80 – alquanto eterogenea, come la sua composizione etnica, e parecchio libertaria e individualista, di certo non socialista ortodossa – un modello di sviluppo differente, “un’utopia”, come indica il titolo, affinché possa indicare un’eventuale alternativa per un futuro prossimo lontano.

Installation view of Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980, The Museum of Modern Art, New York, July 15, 2018–January 13, 2019. © 2018 The Museum of Modern Art. Photo: Martin Seck.